Quale decoro per la nostra città
Il diritto e la giurisprudenza definiscono il decoro architettonico. Il tema, decisamente complesso, lo si lasci all’attenzione e alla professionalità dei magistrati, degli avvocati; talvolta anche alle competenze di taluni amministratori di condominio che non si limitano alle pratiche meramente amministrative.
Qui invece s’intende far riferimento al decoro urbano che ricomprende il decoro architettonico. Non si dimentichi che la città, oltre i suoi tracciati, manifesta la propria identità nei suoi edifici. La città storica è principalmente oggetto d’attenzione da parte delle Soprintendenze. Queste, organi periferici del Ministero della Cultura, hanno competenze regolate dal decreto legislativo del 22 gennaio 2004, n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio". I loro compiti riguardano l’ambito territoriale in materia di tutela e di valorizzazione dei beni culturali e dei beni paesaggistici. Va comunque ricordato che, se il Codice è il riferimento a noi più vicino, le Soprintendenze sono state e sono oggetto d’attenzione della legislazione e della normativa. A fondamento dei loro compiti e dei loro scopi è l’Art.9 della nostra Costituzione. Per questo motivo già si è avuto occasione di fare cenno alle Soprintendenze quando si è parlato dei centri storici.
Un cenno alla storia non guasta. Si sa infatti come in epoca napoleonica esistessero le commissioni d’ornato. Si fa riferimento al Decreto del 9 gennaio del 1807 che istituisce le Commissioni di ornato nelle città di Milano e di Venezia e le Deputazioni d’ornato nei comuni di prima classe o murati. Tale ordinamento è integrato dal Regolamento di pulizia stradale, di salute pubblica e di ornato. Se è Pavia ad esserne dotata dal 1828, poi il regolamento verrà esteso ad altre città. I tempi sono trascorsi. Come si suole dire: “molta acqua è passata sotto i ponti”. Ma, se l’approccio al decoro della città ha dovuto confrontarsi con numerosi cambiamenti dell’assetto urbano, rimane costante l’attenzione a due dimensioni che ben si coniugano.
Da una parte il termine decor significa “convenienza, misura, decenza”, qui s’allude all’armonia e all’eleganza; dall’altra il termine decus fa riferimento all’“onore e alla dignità”. Nel termine italiano “decoro” confluiscono valenze estetiche assieme a valenze etiche. Se le prime sono soggette al giudizio personale (non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace), le seconde sono appellabili all’identità storico-culturale che identifica la città. Così, l’armonia non va ricercata in un presunto carattere univoco che abbia a risolversi nella piacevolezza (a Tizio piace il gotico, a Caio il barocco, a Sempronio il liberty), ma nella consapevolezza che la città va conservata nella sua “integrità dinamica” con i segni che scandiscono i differenti momenti che l’hanno caratterizzata.
La sedimentazione storica è di per sé un valore perché testimonia la vita dei cittadini, vissuto che si ripercuote sulla città e ne costituisce l’identità. Non fa scandalo la copresenza di stili. Si pensi, ad esempio, al complesso intervento di restauro di Palazzo Fodri. I cittadini cremonesi avrebbero voluto che Vito Rastelli realizzasse un intervento che simulasse gli stilemi rinascimentali. Troppo colto l’architetto per piegarsi alla volontà dei suoi concittadini. La lezione di Giovannoni, da lui appresa a Roma, non gli consentiva di dare all’edificio una connotazione falsa che avrebbe ripreso la teoria di Viollet-le-Duc. Il restauro stilistico, teoria che faceva riferimento ad una presunta logica costruttiva, non salvaguardava la storia del palazzo che in talune parti evidenziava caratteri rinascimentali e in altre evidenziava caratteri medioevali. Dove poi il tempo aveva distrutto elementi architettonici importanti, come ad esempio lo scalone, qui era necessario evitare un intervento “analogico” che proponesse canoni rinascimentali, tanto cari ai cremonesi perché tale stile sembrava conferire prestigio. La storia non s’inventa, la storia si documenta. Quando talune parti sono andate distrutte, è necessario provvedere essendo “coevi al proprio tempo”. Ciò non significa progettare senza tener conto dell’esistente, ma è doveroso intervenire senza deturpare l’identità del costruito. In ciò consiste il decoro che ha come primario scopo quello di evitare le superfetazioni. Con questo termine si fa riferimento a tutte le addizioni, a tutte le aggiunte all’edificio storico, che ne diminuiscono la coerenza e la leggibilità rispetto al suo assetto storicizzato, in forza di una presunta nuova funzione. Ciò che invece va perseguito, oltre il consolidamento, è appunto la leggibilità che il restauratore cólto riesce a restituire senza falsare la storia.
È ancora opportuno citare Vito Rastelli. L’architetto, quando è intervenuto in taluni edifici per apporre aggiunte, si è guardato bene dal scimmiottare l’esistente e neppure è mai stato invadente. L’esistente ha mantenuto grazia e non ne è stata falsata la lettura.
Analogamente non fa scandalo il processo d’invecchiamento per il quale si esige che i manufatti architettonici vengano “curati” e, al contempo, mantengano la “patina” del tempo. Nella cura c’è attenzione alla storia, ma soprattutto a quella integrità dinamica che caratterizza una città di cui la patina è segno. La città rimane integra pur con i suoi cambiamenti quando rivela la propria identità che la qualifica. Ciò accade quando i nuovi interventi s’innestano sulla memoria che viene mantenuta a cui si connettono il presente e il futuro. La memoria non è il ricordo, ma è “presenza” di un passato, è identità intrinseca al manufatto e non è semplicemente evocazione.
Si dirà allora: “anche noi abbiamo diritto di lasciare il segno del nostro tempo”. Certamente, ma due aspetti non vanno sottovalutati.
Il primo riguarda la concezione del tempo-storico. La riflessione ha avuto origine nell’Illuminismo (dalla seconda metà del sec. XVIII). Mentre in passato si riteneva che il tempo fosse in qualche misura reversibile, in seguito si ha contezza che ogni epoca ha visioni della realtà proprie: nessuno può ripercorrere il tempo che non gli appartiene. Nel nostro lessico si dice: “torna l’estate”, si constata, poi, che ogni stagione ha eventi propri caratterizzanti. Di più. Ogni epoca ha proprie concezioni e visioni della realtà. Le weltanschauung, come la lingua tedesca definisce “le visioni del mondo”, ispirano la lettura del passato. Si può, attraverso la ricerca storica, tentare di avvicinarsi al passato, ma pensare di comprenderlo a pieno è illusorio. La ricerca documentata è fondamentale, ma per sua natura è sempre soggetta ad interpretazione. Si comprende quindi perché solo a seguito degli storicismi, diffusisi in epoca illuminista e post-illuminista, si sia iniziato a chiedersi se fosse possibile il restauro. Se per restauro s’intende il “ritorno all’antico splendore” è mera illusione, mentre se per restauro s’intende “cura del manufatto”, allo scopo di renderlo il più possibile leggibile, è un doveroso atto di cui si devono far carico la presente generazione e quelle future.
La città è uno strano manufatto. Essa non è un organismo, come lo si intende in biologia, ma è un’aggregazione che rivela bisogni pratici e spirituali della popolazione. Tali bisogni intrecciandosi danno forma a trasformazioni, che dovrebbero sempre mantenere la “memoria attiva”. È questa, ancor oggi, a consentire di distinguere, ad esempio Cremona da Piacenza o da Parma, pur essendo tre città limitrofe.
Il secondo aspetto riguarda il tecnicismo in atto oggi. E’ dovere ricordare Emanuele Severino quando, con la pacatezza che lo contraddistingueva, puntava il dito contro la tecnica come atteggiamento mentale che distrae l’uomo dalla ricerca del senso del reale. Il discorso qui si fa impegnativo ed impervio, ma quanto è da tutti constatabile è come oggi la dimensione dell’uomo sia indirizzata dalla tecnica. L’uomo ad essa si affida non perché la conosca, ma perché in essa trova la panacea di tutti i mali. Poi egli si accorge d’essere tradito da questa sua fiducia illimitata. È quanto sta accedendo nei confronti della città solleticata da mirabolanti interventi come i cappotti e i panelli solari o le trasformazioni di edifici in vista di nuovi utilizzi non congrui alla loro identità o alla specificità del sito in cui sono inseriti. Sembrerebbe ad esempio che l’uso di scantinati cui attribuire nuove funzioni sia un modo adeguato per recuperare antichi spazi. In vero, non è così. Se in tempi calamitosi o in situazioni particolari l’uomo ha dovuto “nascondersi” alla luce del sole, ciò contrasta con la sua natura che è sempre alla ricerca di spazi luminosi. Un’operazione che tenti d’attribuire nuove funzionalità a spazi un tempo di mero servizio sembrerebbe consona alle esigenze contemporanee, ma l’edificio è per l’uomo e deve essere conforme alla sua natura. La tecnica consente la realizzazione di progetti di “recupero funzionale”, ma le tecniche sconnesse dai valori costituiscono un tradimento del decoro architettonico ed urbano. Sono i valori non negoziabili, come la memoria attiva, come l’intimo rapporto fra storia della città e storia dell’abitante, come il decoro declinato in sede estetica ed in sede etica, a consentire un approccio alla città che è spazio vitale in quanto testimonia la storia che è dimensione cui ciascun cittadino partecipa.
Se all’interrogativo di Dostoevskij “quale bellezza salverà il mondo?” si vuol attribuire un significato che vada oltre gli slogans si deve far riferimento al decoro. Si ribadisce: il decoro urbano consiste nella salvaguardia dell’identità della città in cui bellezza e rispettabilità trovano il loro momento di sintesi. Estetica ed etica debbono essere in accordo: l’una e l’altra si devono supportare reciprocamente. Non si può infatti dimenticare che garante delle diversità, di tutte le diversità, sia l’affermata identità di ciascuna realtà. Altrimenti si scade nel qualunquismo e, quel che è peggio, ci si lascia irretire dal fideismo tecnologico. Questo ha come esito un globalismo sterile che, nella sua generalità, perde la ricchezza delle diversità, quelle diversità che primariamente il saper-fare dell’uomo manifesta nei caratteri precipui dell’habitat che egli si è costruito nel tempo e che la storia testimonia. Evitiamo le claustrofobie che, se pur inconsciamente, fanno riferimento alla “morte del topo”!. Abbia tale tema, preso a mero esempio, a portarci criticamente a riflettere sul decoro della nostra città.
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commenti
Michele de Crecchio
11 giugno 2021 20:24
E' un intervento talmente gravido di preziose informazioni e di sagge considerazioni che dovrebbe essere letto e riletto da tanti tecnici ed amministratori che oggi operano sul territorio senza essere spesso adeguatamente consapevoli delle conseguenze, anche gravissime, del loro operare.