13 dicembre 2024

Quando grandi maestri ci lasciano. La scomparsa di Gianfranco Calligarich e di Eugenio Borgna non ha il sapore di un addio

In pochi giorni, sono arrivate via Internet due notizie tristi: Gianfranco Calligarich e Eugenio Borgna se ne sono andati, in silenzio e con dignità. Per il primo una nota della Bompiani: “Gianfranco Calligarich, giornalista, sceneggiatore e scrittore, è venuto a mancare il 25 novembre all’età di 85 anni”. Per il secondo, i maggiori quotidiani italiani vi dedicano una nota di approfondimento: “Eugenio Borgna, uno dei più illustri psichiatri italiani, si è spento il 4 dicembre a 94 anni”. Per me, un invito alla riflessione e ad un affettuoso ricordo. Certo, non un addio, perché le loro figure e le loro pagine mi accompagneranno certo per il resto dell’esistenza. Li abbino nella commemorazione, in quanto li considero rappresentanti illustri del dialogo colloquiale, elevato a teoria di cura, modalità di rapporto e stile di vita.

                                                                                                              I

Quando si parla di Eugenio Borgna, ora che è scomparso ai primi di dicembre, tutti si riferiscono al suo essere uno psichiatra fenomenologico, il che ci porta a pensare a lui come ad un medico e filosofo che cerca in tutti i modi di cogliere le radici esistenziali del dolore conoscendolo in una forma estranea ad ogni pregiudizio, senza mai abbandonare la speranza, “se il dolore è rivissuto come uno degli elementi che fa parte della vita, e che testimonia di una comune fondazione ontologica della condizione umana”. Tentare di comprendere il dolore dell’altro, ma anche il nostro, richiede a noi di fare riferimento alla mutazione della percezione del tempo, quello soggettivo, quello vissuto, che questo provoca, sia esso dolore acuto  - quando lo strazio ti impedisce di non percepire altro che non sia quella del grido e del pianto - sia esso “cronico” che Borgna intende chiamare dolore che si estende nel tempo: “Cambia l'esperienza soggettiva del tempo perché nel dolore cronico non si vive nel solo presente, nel qui-e-ora di un presente, che non ha le incandescenze talora intollerabili del dolore acuto, ma si vive anche nel passato, nel bruciante ricordo del passato, e si vive nel futuro, ma è un futuro vissuto come ripetizione di un dolore sempre uguale, e diverso solo nelle sue impennate e nelle sue soste”.

E’ su questo terreno che per Borgna si può innestare la cura, come ascolto, come relazione, mai disgiunta dall’introspezione: “Nell'esperienza del dolore, del dolore che è in noi, e del dolore che è negli altri da noi, sono in gioco le nostre attitudini ad ascoltare e ad entrare in relazione con noi stessi nella introspezione, e con gli altri nella immedesimazione: l'una e l'altra in un dialogo senza fine. Ma come non dire che questo dialogo è possibile solo se si abbia coscienza... dei fatali pregiudizi che portano a distinguere una vita degna di essere vissuta da una vita non più degna di esserlo... Ripensare al dolore, a questa esperienza apparentemente semplice e banale, e in realtà complessa e dilemmatica, significa ripensare alla fragilità umana, e al suo mistero” (Il dolore come esperienza umana, 2014).

E’ a questo punto che entra prepotentemente in gioco la parola, nel suo dirsi e nel suo far spazio al silenzio. Secondo Borgna lee parole che salvano, e ci salvano, sono come i pozzi artesiani, in cui le acque del sottosuolo risalgono in maniera naturale alla superficie, dopo che il terreno è stato forato. Come ebbe a scrivere Ungaretti circa un secolo fa: “Quando io trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso”. Così le parole che rivolgiamo, nella relazione veramente umana, al mistero dell'altro, al suo dolore, alla sua disperazione, ma anche alle sue bellezze celate – quelle vere, autentiche, gentili – aprono l'animo e consentono alla sofferenza più profonda di risalire alla luce del linguaggio, senza il quale, come diceva Shakespeare, le emozioni spezzano il cuore.

Il grande psichiatra piemontese nel testo “Le parole che ci salvano” (Einaudi 2017) ribadisce il Leitmotiv della sua ricerca sul rapporto tra fragilità del corpo e quelle della psiche: “non c'è altra strada nel conoscerle se non quella che ci fa guardare con l'intuizione negli abissi della nostra interiorità. Ma è doloroso: temiamo, come diceva Nietzsche, di finire divorati dagli abissi dai quali rinascono contraddizioni e antinomia della nostra anima”. Le parole che assumono valenze salvifiche non sono ingabbiabili negli orizzonti semantici, filologici, classificatori della ragione calcolante – le ridurremmo ad ipostasi – ma vanno inserite all'interno di orizzonti comunicativi dove si scaldano, arricchendosi di risonanze e aloni emozionali, ponendo in contatto la superficie e la profondità, il visibile e l'invisibile dell'anima altrui come della nostra. 

Le parole che usiamo ogni giorno possono ferire, ma possono anche essere scialuppe in un mare in tempesta; ponti invisibili verso destini comuni. Nella nostra quotidianità siamo continuamente chiamati ad ascoltare le speranze e le angosce degli altri. Ma come possiamo trovare le parole giuste per rispondere; le parole che salvano e creano relazioni vere? Eugenio Borgna in queste pagine ci indica una via da seguire per entrare realmente in contatto con gli altri, per fare in modo che le loro parole non cadano nel vuoto e che le nostre servano davvero; mettendo in gioco nel dialogo tutte le emozioni di cui siamo capaci. Perché comunicare non significa rispondere a una mail o a un messaggio, ma condividere la nostra intimità con quella di altri. Solo in questo modo la comunicazione non resterà un gesto tra tanti, ma diventerà un colloquio, un gesto di cura. Un gesto che mai come oggi è tanto necessario e urgente fare.

Nel corso della nostra vita siamo accompagnati da alcune esperienze fondamentali che ci consentono di conoscere cosa noi siamo, e cosa sono gli altri; e fra queste esperienze come non ripensare alla tristezza, alla sofferenza, alla felicità, alla solitudine, alla tenerezza, al desiderio di comunità, e di comunità di destino, alla speranza, alla malattia e alla morte volontaria, e ai modi con cui entrare in comunicazione con ciascuna di queste esperienze? Sono esperienze radicate nel cuore della vita, e (cosa ancora più importante) sono esperienze che ci consentono di avvicinarci alle sorgenti profonde della condizione umana. Non si scende nella profondità del nostro essere se non si rivivono esperienze come queste, che ci confrontano con gli eterni problemi dell’uomo: radicati nella nostra interiorità. Non sono lontane da queste le considerazioni che Thomas Mann è venuto svolgendo in uno dei suoi bellissimi saggi: “la conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana ha un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea: vorrei affermarlo con il più profondo rispetto: “Libero ognuno” osserva Goethe” d’occuparsi di ciò che lo attrae, che fa piacere, che gli pare utile; ma il vero studio dell’umanità è l’uomo”. …

Come entriamo in comunicazione, come entriamo in relazione, con noi stessi e con gli altri, con la nostra interiorità e con quella degli altri? Le reazioni umane sono faticose, talora, e talora dolorose. Come dice Rainer Maria Rilke: “Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono così indicibilmente monotone e senza novità da caso a caso, ma alla paura di un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si sente maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo la sua propria esistenza”. 

Non ci meravigliamo, quindi, quando leggiamo le parole di questo medico che rievocando l’inizio della sua esperienza clinica, confessasse: “i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. Fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere. Provai vergogna. E decisi di vietare, tra le altre cose, l’uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato”.

                                                                                                                    II

“1-4-16. Caro Calligarich, sono Carmine Lazzarini. Mi interesso di autobiografie e diari, storie di vita… Ho letto che ha compiuto il viaggio sulle “navi bianche” nel 1943 e ne ha scritto, ricordando la meraviglia dell'uva bianca. Una mia amica ex-collega di scuola, Caterina Canestrari, mi ha consegnato il diario scritto da sua madre nel viaggio sul “Saturnia” da maggio a giugno 1942… Li ho personalmente trascritti… Se ha in mente come valorizzare questa testimonianza, mi scriva. Le lascio il mio cell. Cordiali saluti.” Un quarto d’ora dopo, sentii squillare il cellulare. “Pronto? Chi è?”. “Sono Gianfranco”. “Gianfranco chi?”. “Ma Gianfranco Calligarich. Non mi hai forse scritto poco fa?”. Con questa breve email e con la successiva telefonata si dette avvio ad un’amicizia assai profonda, che si sviluppò con lo scrittore-sceneggiatore e che durò fino alla sua morte, avvenuta il 25 novembre u.s. 

Alla fine di quella telefonata, mi inviò il testo di un suo nuovo romanzo: “La malinconia dei Crusich” (Bompiani 2016). Cominciò così un dialogo a distanza: procedendo nella lettura gli inviavo alcune annotazioni, che considerava preziose, in quanto mi considerava un lettore colto, ma non un professionista delle recensioni, spesso troppo influenzati dalle case editrici: “hai beccato il senso cosmico e insieme storico del libro che è sostanzialmente la storia dei nostri padri le cui fotografie teniamo in casa a alimentare il nostro oscuro rimpianto di un mondo scomparso e di chi sapeva vivere la vita più bravo di noi”. Mi scrisse, qualche giorno dopo, che “la malinconia che nel caso dei Crusich è una sorta di nostalgia per la vita mentre ancora la si sta vivendo. La saudade portoghese in un certo senso e in effetti il libro ha, inconsapevolmente, un certo sapore di fado… Ma la progressiva perdita di epicità della vita e del mondo aveva un costo che non si poteva non pagare”.

Dopo un nostro incontro a Castiglione delle Stiviere per presentare il romanzo, io e mia moglie Rita gli affidammo con un poco di timidezza la storia delle nostre vite. Giunto a casa mi scrisse in modo assai affettuoso: “12-11-2016. Nelle autobiografie c'è una verità sulla vita che nessun libro di storia può darti. Uno legge di Gino e Nene come fossero suo padre e sua madre scomparsi e vive con loro sentendo nostalgia delle loro e della sua vita. La storia di te e di Rita meriterebbe un romanzo… che potrebbe fare capire forse più chiaramente che i colpi di fortuna nella vita, come è stato il vostro incontro e come sono le coincidenze di cui abbiamo parlato a lungo, non avvengono mai per caso ma si meritano a seconda dell'intensità e della fedeltà a se stessi con cui viviamo”. Ci ospitò poi cinque giorni a Roma, a casa sua. Oltre alle bellezze della città eterna, ci offrì la possibilità di incontrare a casa di Irene Bignardi, giornalista tra le maggiori esperte di cinema in Italia, Emma Bonino, che ci raccontò momenti della sua infanzia: così ci trovammo a cantare insieme “Vola colomba” e “Papaveri e papere”. Io e Rita, mia moglie, avevamo portato tortelli di zucca, sbrisolona, e il dolce di Castiglione delle Stiviere, l’Anello dei Gonzaga”. Pensammo anche di presentare il libro a Cremona – “Cremona la trovo bellissima , ci ho presentato un libro durante un festival e la piazza e la chiesa sono stupende” – ma poi per impegni vari, dovemmo rinuciare.

Di lui, oltre alla straordinaria immediatezza, mi ha sempre colpito l’autoironia, anche in momenti di particolare successo, ad esempio a proposito del romanzo citato, vincitore del Premio Viareggio: “La malinconia dei Crusich è il romanzo più importante che abbia scritto. Importante per me, intendo, visto che è l'esatta storia mia e della mia vasta e avventurosa famiglia durante tutto il Novecento. E il fatto che sia stato accostato a Cent'anni di Solitudine (Garcia Marquez) e ai Buddenbrook (Thomas Mann) mi ha fatto a lungo andare in giro, contro la mia abitudine, con la schiena ritta e la testa alta. Se poi camminando a testa alta schiacciavo quello che è meglio non schiacciare camminando, non me ne fregava niente, visto che i cani sono la miglior compagnia che si possa desiderare nella vita e li amo moltissimo”. 

La sua ultima opera non a caso porta il titolo: “Passeggiate coi cani”, dove narra di un vecchio scrittore che di notte, accompagnato dai suoi amici, rievoca il percorso della sua esistenza. E’ nell’ultimo suo scritto che Calligarich trova la lucidità per esplicitare, attraverso il suo alter ego, una visione di sé nel corso dell’esistenza, che lo spinge a “stabilire in cosa fosse consista la sua vita pur sapendolo benissimo. La navigazione sotto costa di un vascello con occasionali sbarchi sulla terraferma per rifornire la cambusa e poi riprendere il largo”. E’ una visione del mondo, non una frase nostalgica, come in fondo nostalgica è la preferenze data ai cani piuttosto che ai gatti. Un elogio alla vecchiaia da parte di un autore italiano ormai attempato, con un nome che non cela la sua origine triestina, il quale si è goduto, in questi anni, anche la riscoperta della sua opera prima, oltre gli acciacchi. Infatti “L’ultima estate in città”, edita nel 1973, ha incontrato, forse perché contornata da un’aura esistenzialista, una vera rinascita a livello internazionale, quando è stata riscoperta da Gallimard e lanciata nel mondo (tradotta in catalano, spagnolo, ebraico, olandese, tedesco, svedese, inglese, rumeno, ceco, greco, lituano, coreano, giapponese, ecc.). La quale gli è valsa, tra l’altro, nel 2021 il prestigioso “Prix Fitzgerald” in Francia e il premio “Marco Polo Venise”, per il miglior romanzo italiano tradotto in francese. “Mi hanno fatto dormire nella stanza di Francis Scott Fitzgerald in Costa Azzurra”, mi telefonò con l’entusiasmo di un adolescente”.

La nostra corrispondenza si infittì anche quando mi mandò in anteprima “Una vita all’estremo. L’impresa dell’esploratore Vittorio Bottego” (Bompiani, 2021) dove l’intento più vero dello scrittore è quello di sviluppare il racconto in chiave di analisi esistenziale, come richiamato dal titolo: la biografia romanzata di un uomo in preda alla brama di vivere, alla ricerca di quell’“altrove” irraggiungibile come ogni orizzonte, disposto ad ogni sfida pur di arrivare a scoprire le sorgenti di un fiume africano: sorgenti che altro non rappresentavano per lui che la trasposizione simbolica della sua esistenza. 

Il fiume rappresentava in Gianfraco Calligarich l’immagine della sua esistenza, ne parla in continuazione: il Po, il Tevere, i fiumi africani, l’Orinoco in Venezuela. Perché il fiume, nell’immaginario di ognuna e ognuno di noi, ma anche delle collettività, dà un senso di eternità, di perennità del suo scorrere, ma anche del suo andare verso una fine ineluttabile, come scrive Seneca parlando del tempo: in cursu semper est, fluit et precipitabis. Da qui il senso di irreversibilità che finisce per comunicarci. E si affaccia a noi, il fiume, nel suo accoppiare la simbologia della superficie della corrente, che appare come specchio in cui riflettere la propria immagine, con il profondo delle sue acque, con quanto celano: fondali affascinanti, animali fantastici, ma anche melma, gorghi, radici, esseri mostruosi o misteriosi, cadaveri di animali e di essere umani. Senza dimenticare il suo apparire come fonte vitale, a cui attingono piante, animali, gruppi umani, che d’improvviso si può trasformare in violenza inarrestabile delle piene che spazzano via ogni cosa, tutto travolgono, annegano e risucchiano nei loro gorghi. Come le guerre del ‘900.

Tutti romanzi di partenze, di distacchi, i suoi. Non di addii, perché gli altri che ci corrispondono non sono mai lasciati. Fantasmi di amici e di amori, che con pazienza ti attendono ovunque possano essere andati. Sono sempre con noi, anche dopo la morte. Grazie Gianfranco, amico assetato di vita, che hai saputo narrare, attraverso te stesso, la vita, con un senso di malinconica nostalgia, “saudade”, in portoghese.

 

Carmine Lazzarini


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