16 gennaio 2022

Quel vino che dà sapore alla vita

I discepoli pensano di andare a Cana di Galilea per assistere alle nozze di due giovani innamorati, di banchettare lietamente assaggiando vivande gustose, sorseggiando dell’ottimo vino, cantando e danzando lietamente. Nel Medio Oriente i matrimoni erano una grande occasione di incontro, di gioia, di festa: potevano durare anche una settimana!

In realtà i discepoli sono, loro malgrado, spettatori di un altro matrimonio, di un patto di eterna alleanza che sarà sancito da uno strano “sì”, unilaterale, e, soprattutto, non da una coppa di vino, ma dal sangue che scenderà a fiotti dalla Croce. In questo piccolo paesino a nord di Nazareth, infatti, si celebra l’unione sponsale tra Cristo e l’umanità intera. Giovanni utilizza questo evento, così dolce e familiare, per spiegare quello che accadrà nei capitoli successivi del suo Vangelo: le nozze di Cana - così come il battesimo al Giordano per i sinottici – sono un anticipo, una profezia di quanto Gesù farà attraverso la Sua passione, morte e risurrezione.

In realtà il matrimonio di questi ragazzi con un banchetto senza più vino, richiama la religiosità stanca e formale di Israele, la tiepidezza con cui si rapporta con Dio, la mancanza di entusiasmo, di slancio; la ripetizione di gesti esteriori che non arrivano più al cuore dell’uomo, che non lo spingono alla conversione, al cambiamento, ma che lo cullano nella sua presunzione di sentirsi perfetto, arrivato.

Il vino, nell’immaginario collettivo, rimanda alla gioia, alla convivialità spensierata, alla pienezza dell’incontro con l’altro: la festa non si può celebrare con l’acqua! Il vino riempie la bocca di un sapore buono e corroborante, scalda e ritempra il corpo, crea intimità, intesa tra i commensali, permette di assimilare meglio i cibi. Il vino è allegria, è vitalità, è passione. Proprio ciò che manca a quell’Israele a cui Cristo va incontro!

Maria, donna attenta e profonda, abituata a servire, sempre premurosa riguardo i bisogni degli altri, si accorge subito che il vino sta finendo. È lei, la prima dei discepoli, il credente perfetto, che si rende subito conto del bisogno che queste persone hanno di Cristo, del suo messaggio di salvezza, di quell’alleanza nuova che non sarà più scritta su tavole di pietra, ma in un cuore di carne. Sembra quasi che Maria voglia affrettare la rivelazione di suo figlio Gesù: c’è troppa stanchezza, troppo affanno, troppa tristezza, troppo buio nella vita degli uomini! Manca il vino della speranza, della consolazione, di una nuova e più intima comunione con Dio. La Vergine Santa anticipa qui quella sua maternità universale e spirituale che sarà sancita solennemente sul Golgota, quando, dolente, ai piedi della Croce, condividerà la passione del suo Gesù! A Cana Maria capisce che non dovrà solo occuparsi e preoccuparsi di questo suo Figlio così dolce e così strano, ma di tutti gli uomini, di ogni luogo, di ogni tempo. La stessa risposta di Cristo, che ci appare così ruvida, quasi aspra, va in questa direzione: Egli sembra quasi smarcarsi da un legame “carnale”, esclusivo, con la Madre (anche in altre parti del Vangelo Egli prende le distanze da lei e dai suoi familiari), eppure quell’appellativo - “donna” - tornerà proprio al momento dell’affidamento di Maria a Giovanni e viceversa. E come se Gesù le chiedesse di allentare l’abbraccio a lui solo, per imparare così ad abbracciare tutto il mondo.

Le poche parole di Maria rappresentano tutta la sua missione: “Qualunque cosa vi dica, fatela”. Ella non forza Gesù, non pretende un segno, non reclama un miracolo, ma mette tutto nelle Sue mani: Egli sa ciò che è giusto fare! A lei il compito di condividere con gli uomini la sua fede, la certezza, cioè, che Gesù agisce sempre per il meglio, che Lui ha a cuore ogni persona e che a Lui bisogna sempre guardare per avere la salvezza! Lo ha fatto a Cana e lo continua a fare ogni giorno, anche attraverso le Sue tante apparizioni in ogni angolo della terra!

Che Cristo sia venuto nel mondo anche per rivitalizzare la fede di Israele è corroborato dal fatto che usi come recipienti per la trasformazione dell’acqua in vino proprio quelle anfore di pietra utilizzate per la purificazione rituale. Quelle giare, infatti, sono la plastica immagine di questa religiosità formale, così minuziosa nel descrivere i gesti esteriori da compiere per tornare ad una purezza cultuale, ma molto meno preoccupata dell’interiorità, del cuore, del legame tra la liturgia e la vita di ogni giorno. Cristo, al contrario, è venuto per riaffermare il primato dell’interiorità, per aiutare l’uomo a comprendere che se i gesti religiosi non conducono ad un amore più grande per Dio e per gli altri, ad una compassione più abbondante, al riconoscimento della propria piccolezza e della propria fragilità, allora si tratta solo di gesti falsi e vuoti, che mirano unicamente ad anestetizzare la propria coscienza! 

Una bella provocazione per tutti noi credenti: la Messa che celebro, la preghiera che recito, il digiuno che pratico, la carità che esercito… mi rendono più figlio di Dio, più fratello del prossimo? Arricchiscono il mio cuore d’amore? Mi spingono ad abbracciare e a sentire parte di me il povero, il malato, lo straniero, il malvivente…  O rischio anche io, al pari degli israeliti, di bearmi tra incensi e canti polifonici, dimenticando chi è ferito mortalmente dalla vita? Come quella madre afgana, a piedi nudi, morta assiderata nel gelo dell’inverno iraniano, nel tentativo di scaldare con le proprie calze le mani dei propri figli! Quando sarò dinanzi all’Eterno, sarà proprio lei, insieme a tanti altri martiri dell’indifferenza, a domandarmi, che cosa ne avrò fatto di quel vino, che in abbondanza, Cristo mi ha donato per rendere la mia fede più appassionata della vita, più graffiante nella profezia, più compromessa nella carità, più prodiga nell’amore!

Claudio Rasoli


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