Renato Rozzi, grande studioso. Innamorato di Cremona ma assai critico con la sua comunità
Non è un caso che Renato Rozzi, da poco scomparso, abbia scritto un breve saggio autobiografico dal titolo “Nato a", Cremonabooks, 2003, dopo molte pubblicazioni concettose e anche specialistiche, con case editrici tra le maggiori in Italia: Psicologi e operai (Feltrinelli, 1975); Suolo urbano e popolazione, (Franco Angeli, 1980) con Carlo Carozzi; Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano? (Il Mulino,1997). Alcune anche dedicate a Cremona: Cremona tra città e campagna (Turris, 1987) con Michele De Crecchio; I cremonesi e Farinacci, (Biblioteca Statale di Cremona, 1991), che sollevò un vespaio di critiche.
Dopo tanti anni lontano dalla sua terra, superati i 70, Renato volle ripensare il suo rapporto viscerale con la terra di origine, con i suoi abitanti, con la sua storia, che ci accompagna. Come fece, tra l’altro il suo grande amico, Corrado Stajano. Scrisse: “Ho le radici a Cremona, ma il resto non è qui. Son diventato adulto fuori dall’ambiente della mia giovinezza, ed anche in contrasto con esso, passando dall’immersione infantile al disincanto attuale”. Rozzi, infatti, rimase lontano dalla sua città per decenni: l’Università alla statale di Milano, dove si era laureato con Cesare Musatti (psicoanalista) ed Enzo Paci (di formazione fenomenologica). In questo ambiente entrò in rapporto con intellettuali dell’Est, critici col sistema del socialismo sovietico: “avevamo contatti con l’opposizione comunista al comunismo, con Kosik; io sono stato uno dei primi a conoscerlo, avevamo dei rapporti riservati, anche con Patocka, grande filosofo. Queste persone erano a lato, perseguitate, gente che aveva lottato contro il nazismo e adesso era perseguitata anche dal comunismo”.
Poi il lavoro negli anni ’60 come psicologo presso l’Olivetti di Ivrea. Lo andammo a trovare nel 1964 in quattro o cinque “compagni” di Cremona e ci guidò a visitare lo stabilimento, uno dei più avanzati d’Europa, dove potemmo osservare le famose “catene di montaggio”. Renato diceva che tutta una serie di studiosi della classe operaia e del sistema fabbrica non aveva mai visto un operaio al lavoro. Poi i trasferimenti nelle Università dove era stato chiamato come docente: Università di Trento, Cosenza, Urbino e Verona.
Da queste sue esperienze, Rozzi inizia un suo personale viaggio nella sua comunità di origine, maturando un sempre più grande di estraneità. Amore ed estraneità, questo un motivo conduttore della sua vita di uomo, di studioso, di ricercatore, di autobiografo, per cercare di capire se stesso attraverso la storia della propria terra: “Più me ne sono allontanato aprendomi alle tante diversità del mondo, più ho sentito il bisogno di capire da vicino l’angolo della terra in cui mi è capitato di nascere”. Ma siccome non è facile capire i cremonesi, come mi ha scritto nella dedica a un mio libro che gli avevo donato, alla fine si trova a dire: “Ho reso ancora visibile il bisogno di rivolgermi a questa comunità, come una remota famiglia allargata, anche se essa m’appare sempre più sconosciuta, persino immemore di se stessa, diciamo affaccendata a rappresentarsi in un’immagine che non condivido”.
Da dove nasce la delusione e il senso di estraneità, la non-condivisione che fa a pugni con un senso di appartenenza così profondamente sentito? Da tanti motivi insieme, a cominciare da una classe dirigente, politica, economica e intellettuale, che invece di valorizzare la propria modesta corporeità e aderenza alla terra, preferisce nascondersi dietro un’immagine di falsa bonarietà e di splendore. Porta un esempio, partendo da tre pubblicazione del 1998. “Sotto le luminarie di Natale, nel ’98 sono usciti “Cremona e il suo territorio” (3 chili della Cariplo), “Chiese di Cremona” (due chili di Arvedi), e nel 2001 “Palazzi e case nobiliari” (un chilo e sette della Banca Popolare). Avanti così e la memoria cremonese diventa un articolo da regalo”. Non è che non bisogna pubblicare libri di questa fattura e qualità, che è elevata, ma l’inganno sta nell’identificare la città con l’immagine che questi volumi ne danno: “Se nell’immaginario collettivo prevale l’ufficialità di questa sua rappresentazione idealizzante... la comunità rischia di perdere il senso di verità: invece di raccontarsi si monumentalizza”.
Bisogna invece avere la capacità di narrare per comprendere, partendo dalla propria storia personale e della propria famiglia, da una “fondante” conoscenza “storica” che è in tutti, prima ancora della lettura dei libri di storia: quale storia emergerebbe, infatti, se ognuno di noi ripercorresse la storia della propria famiglia, della propria scuola, della propria parrocchia, del proprio quartiere, del proprio paese o della propria città? Una vicenda carica di ricordi d’infanzia, percezioni elementari ma ricchissime di spunti e collegamenti possibili (gli odori, i suoni, i sapori, gli incontri ecc.), che potrebbe mettere in scacco la storia degli storici così priva di soggettività. Per Renato Rozzi la valorizzazione della soggettività è sempre stata eticamente e politicamente rilevante.
La monumentalizzazione della storia cremonese, secondo il suo parere, ha portato questa terra ad accantonare gli aspetti scomodi e tragici della sua esistenza nel tempo. Rozzi ricorda i ghiaiaioli bere l’acqua del Po nelle soste del lavoro e come la sua compagnia di ragazzi si facesse trasportare “in su” verso Piacenza dai barconi catramati, per poi tuffarsi e lasciarsi trasportare fino a Cremona dalla corrente “per ore di transazione lieve, quasi fuori gravità, e la terra adulta sembrava lontana, acqua e cielo”. Esperienze inimmaginabili oggi. E qui la stoccata critica “Era proprio inevitabile che la ricchezza la si ottenesse con lo scambio tra un fiume e una fogna?”. O con l’esodo sradicante di migliaia di lavoratori della terra?
Presa da questa sua falsa rappresentazione di sé, la comunità cremonese si è macchiata anche della responsabilità di non avere fatto i conti con la sua esperienza politica più tragica, l’appoggio a Farinacci “il più fascista”, con il carico di violenza e di razzismo che portò a Cremona rischiando di sfigurarla. Questo personaggio onnipresente, improvvisamente dopo l’aprile 1945 è scomparso dai discorsi e dalla memoria, quasi non fosse mai esistito. E queste tacite omertà si pagano.
Ma lo sconforto più grande per Rozzi nasce dalla dimenticanza del mondo dei sofferenti del passato – i contadini e i matti – e del presente – i vecchi e i giovani, oltre gli immigrati. Certo, la dimenticanza è anche necessaria, ma non quando ci sono responsabilità, sostiene Renato. Per lui invece sono scattati, fin dalla sua infanzia e vita familiare, processi identificativi proprio con i più deboli, un sentimento prepolitico, che porta a concepire quanto di profondamente intrecciato nei rapporti infantili c’è nelle scelte adulte, ma anche quanto soggettivo e poco convincente per altri sia questo “sentimento di pietas verso tutti gli oppressi, con la sua astorica radice cristiano-socialista”. Di questi oppressi andava colta e valorizzata la soggettività, che invece la classe dirigente di destra e di sinistra, cattolica e laica, ha tentato di negare, comportandosi come non ci fosse, negandone le storie anche elementari, che poi così semplici non sono mai.
Invece a suo dire bisogna essere disponibili a scambiare le storie personali, proprie di ogni gruppo e di ogni famiglia, partendo dalle quali si può avvicinare criticamente il passato e il presente, per ricostruire un’immagine di comunità locale meno bacata, proprio partendo dal rapporto con le percezioni della campagna, con il gusto della musica, con le feste e con le personali esperienze sociali e politiche. Lui, così profondamente radicato ad un’esperienza “sinistra”, è disposto ad ammettere: “Solo raccontandoci le nostre storie credo che avrei potuto trovare un piano di interrogativi comuni con i giovani di destra”. Un’ammissione questa ancora oggi stupidamente inaccettabile per troppe persone che vogliono lottare per la pace e la giustizia, ma non sanno vedere l’altro che è di fronte a lui, con alle spalle una storia, magari di sofferenza e di soprusi. Perché alla fine bisogna ammettere che siamo fatti di rapporti, non solo con chi è simile a noi, ma che con chi sembra altro, tanto lontano, come questa città e questa pianura, che vuole restare immemore di sé.
Alla fine si chiese se sia riuscito a parlare a questa città che sente sempre più lontana, ma che è ancora tanto cercata in un desiderio crescente di appartenenza, che rappresenta moltissima parte della sua identità di singolo e di studioso, cominciando a parlare proprio delle parti più profonde ed affettivamente sensibili, da quel bambino che permane in ognuno di noi adulti e vecchi, tramite il quale rimane aperta la speranza di un incontro con l’ambiente e con persone che sembrano prese dall’incapacità di parlare di sé: “quasi ci si dovesse nascondere che una persona ed una comunità sono fatte di continuo della propria storia”. Anche per Rozzi, così come per gli altri autori che l’hanno preceduto, alla fine si scrive, si lascia un segno tangibile del proprio pensiero, quasi nella fede nel potere che la pagina scritta possiede di salvare un mondo e di lanciare un messaggio per il futuro.
Voglio terminare questa “commemorazione” (da cum+memorare, il ricordare insieme) un’esperienza negli anni ‘70 per me personalmente assai significativa: un corso 150 ore sulla salute in fabbrica che Cesare Mainardi, segretario allora della Fiom, mi aveva incaricato di organizzare, a cui Renato Rozzi dette un contributo decisivo, soprattutto sul concetto di “salute” e di “realizzazione di sé” nel lavoro.
“La salute ci riguarda direttamente come persone, come soggetti. I problemi della salute sono 'nostri', intimi, non delegabili ad altri, anche se di solito ci si affida al medico, che prende in considerazione i nostri organi, invece di considerarci come soggetti globali. I problemi della salute legati alla fatica sono ancora meno delegabili, in quanto la fatica è qualche cosa di difficilmente oggettivabile, misurabile dall'esterno, ma è legata indissolubilmente all'unità di corpo e di coscienza, all'uso del corpo e alla coscienza di questo, quindi al 'vissuto' concreto degli uomini e delle donne che lavorano, anche alla loro cultura, che dà significato e rilevanza al 'far fatica', al 'sentirsi stanchi', allo 'star male'.
In passato la fatica era legata all'enorme dispendio muscolare e alla scarsità di alimentazione. Quando nascerà la fabbrica moderna, col lavoro parcellizzato e automatizzato, all'inizio molti operai pensarono di trovarsi di fronte ad un lavoro 'leggero'. Ma quali conseguenze porta all'uso del corpo e della mente questo lavoro razionalizzato, ridotto in tanti piccoli frantumi? Pensiamo ad esempio ad un'operaia impegnata ad una pressa che deve stampare 1.500 pezzi all'ora. Vi è innanzitutto un problema di 'staticità'. Tutto il corpo è immobilizzato, si muovono solo ristretti fasci muscolari, sempre quelli. Poi si pone il problema del coordinamento motorio rapido e preciso, unito all'utilizzazione della sensibilità percettiva fine… …
Si sa che il lavoro è, insieme, cambiamento dell'oggetto e realizzazione di sé. Cambiando la natura, dando forma diversa alle cose con cui viene a contatto nel lavoro, l'uomo ha costruito se stesso. Ma quale realizzazione ci può essere in un lavoro così parziale, così separato dall'oggetto finale, dal significato finale di questo produrre? Da qui il sentimento diffuso a livello di massa, di un consumarsi nel lavoro, di uno spreco di energie senza fine, senza uno scopo che non sia il salario, senza cioè quel piacere di fare e di trasformare, di progettare e di creare, che costituisce tanta parte della vita di tutti gli uomini.
Per ognuno il lavoro trova un senso solo all'interno di un progetto consapevole. Invece, attraverso questo tipo di lavoro 'razionalizzato', la grande massa degli operai assiste al consumo delle proprie energie psicosomatiche, e non vede ricostruirsi attraverso il lavoro la propria personalità, la propria globalità umana e sociale. Si tratta di rimettere in moto un processo per cui si affermi una concezione unitaria della propria vita e della propria umanità, una concezione che tende a riappropriarsi soggettivamente della propria corporeità, con il rifiuto della frantumazione del corpo, delle facoltà psichiche e intellettuali, della vita stessa dentro e fuori dalla fabbrica”.
Grazie Renato, per i contributi critici che hai saputo donarci in così grande abbondanza, per il senso di accoglienza con cui ricevevi chiunque si rivolgesse a te. Spero che la città e la cultura cremonese non ti dimentichi presto, ma valorizzi le cose che dicevi, anche quando facevano male. Tra l’altro in maniera totalmente disinteressata, il che non è poco, in un mondo di arrivisti come il nostro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Antonella Nuovo
12 novembre 2024 09:13
Grazie prof. Lazzarini del bellissimo ricordo di Renato Rozzi. Anche negli ultimi anni della sua vita lui ha fatto molto per aiutare persone in difficoltà e ha donato generosamente. Uno studioso importante e una stupenda persona
Pietro Stefanini
12 novembre 2024 12:01
Il prof. Rozzi è stato relatore alla mia tesi. Allora ero assistente sociale al comune di Parma e ero in contatto con i primi inserimenti al lavoro di persone con disabilità grave. Fu entusiasta del tema e chiese a me è alla collega Campanini di fare una ricerca sul tema. Fu una esperienza interessante. Per noi e per lui, generoso nel seguirci, incontrarci, accoglierci anche in casa sua a Cremona per discutere e approfondire. Grazie infinite dei preziosi insegnamenti e delle confidenze.
Francesco
12 novembre 2024 18:24
Grazie per il ricordo di una persona speciale che certamente Cremona dimenticherà presto, così come ha dimenticato da sempre il confronto e la discussione critica. Caro Renato, un abbraccio da quaggiù, il posto del "stumm schiss"
Giovanna Balestreri
12 novembre 2024 20:09
Grazie. Conoscevo bene Renato, grande amico di mio papà Mario. Un articolo interessante e profondo, come era il suo pensiero
Michele de Crecchio
13 novembre 2024 00:25
Ringrazio "Cremona Sera" per averci ricordato, la bella e singolare figura di quel meritevole concittadino che fu l'ottimo Renato Rozzi. Da diversi anni, purtroppo, era diventato, anche per gli antichi amici, problematico parlargli e non certo per suo aristocratico distacco, difetto che non gli apparteneva affatto. Ricordo infatti molto bene la generosità personale con la quale si era, a suo tempo, impegnato a sostenere, assumendo con entusiasmo persino il modesto, quanto delicato, compito di assessore di una piccolissima, quanto gradevole, comunità della periferia cremonese (Crotta d'Adda).
Bizioli Giovanni Mauro
13 novembre 2024 21:14
Renato Rozzi è stato per molti anni anche nostro amico grazie a Guido Davide Neri.
Lo stupore, la soggettività, il confronto sono stati gli ingredienti base delle serate e degli incontri a partire dalla fine degli anni Ottanta. A Verona, a Brescia, a Crotta d'Adda, a Rovato con tutti quelle discussioni che avevano sempre una ripresa: sui giovani adulti, sulla religiosità, nel confronto tra Brescia e Cremona, la campagna di Alfianello, la sua infanzia, gli affetti, il lavoro, le mostre d'arte.
Una figura curiosa! capace di stupirsi ancora a novant'anni.
Una vita spesa bene, intensa, interessante.
Grazie Renato.
(Gli amici bresciani - come amavi dire)