3 giugno 2023

Res-publica res populi: alii propter, alii perperam agunt

La Repubblica Italiana ha compiuto gli anni, genetliaco che viene fatto coincidere con la data del referendum che portò gli Italiani a scegliere quest’ultima contro la vigente monarchia, risultato che peraltro è stato da sempre oggetto di dietrologie sospettose di brogli elettorali in tipico italian style, e che ci ha fatto diventare, da una delle monarchie più giovani, una delle repubbliche più giovani d’Europa, e siamo quasi pari: 85 anni di Regno e 77 di Repubblica. 

Le celebrazioni sono state sobrie ma seguitissime, come hanno ampiamente dimostrato i social con un fiorire di tricolori più diffusi e abbondanti: pare che da qualche anno gli italiani abbiano iniziato a sentirsi questa Repubblica sempre più familiare. E in effetti negli anni l’affezione al Tricolore e alla Patria sembra godere di buona salute, soprattutto dopo che la caduta del muro di Berlino ha stemperato le contrapposizioni tra i blocchi che tanto facevano celebrare forse più le bandiere USA e URSS che non il nostro bel bianco rosso e verde, il quale peraltro è bene ricordarlo in realtà fa la sua prima comparsa come vessillo della Repubblica Cisalpina voluta dal Generale Bonaparte, cui al blu del vessillo rivoluzionario francese venne sostituto il verde…

Insomma già da qui si capisce che gli stranieri in Italia ci hanno sempre messo il becco. E ahinoi non fece certo eccezione la nascita della Repubblica: già in quella notte tra il 12 e il 13 giugno in cui De Gasperi giurò come primo Capo Provvisorio dello Stato DC e PCI si erano forse divise le rispettive sfere di influenza sotto l’egida lontana ma vigilissima di Stalin e Truman: ai democristiani il potere centrale, le banche, l’industria e la finanza, ai comunisti la giustizia, la cultura e la scuola. Del resto la stessa Costituzione italiana è figlia secondo molti storici di un patto tra i due blocchi e due persone ( USA e URSS; De Gasperi e Togliatti) per consentire di fare dell’Italia una terra di garanzia data la sua straordinaria importanza strategica: i Comunisti e l’URSS non avrebbero tentato una invasione armata, gli Americani e la DC non avrebbero messo fuori legge il Partito Comunista Italiano ed entrambi si sarebbero garantiti delle rispettive sfere di potere. Simul stabunt, simul cadent…ed è forse per aggirare questa dualità figlia degli accordi di Yalta che i Democristiani si inventarono la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, i Referendum, le Regioni…tutte istituzioni che dovevano consentire di compensarla, che Togliatti non voleva e che De Gasperi da pragmaticissimo uomo di governo quale fu si guardò bene dal realizzare subito, altrimenti non avrebbe rimesso il Paese in piedi dalle rovine: doveva avere le mani libere. Non è un caso che ciò che oggi fa più discutere di una riforma costituzionale è proprio l’impasse decisionale in cui l’Italia si trova di continuo nel conflitto tra i vari poteri dello Stato: “corruptissima re publica, plurimae leges” scriveva Tacito (più lo Stato è guasto, più numerose sono le sue leggi, e qui potremmo già chiudere l’editoriale…). E del resto il tentativo di Moro e Berlinguer altro non fu che una riedizione della consapevolezza che questo nostro Paese non poteva uscire dalla devastante impasse degli Anni di piombo se non con un nuovo patto tra DC e PCI, ma portato fuori dalla cementificazione delle dinamiche di potere e ideologiche che si erano nel frattempo create e che poi ebbero la meglio portando perfino alla morte del Presidente della DC. 

Una Repubblica giovanissima nata sulle macerie di una guerra disastrosa, di una Casa Regnante ben poco eroica e di una Dittatura tragica e figlia della Guerra Fredda di cui era il terreno di scontro più centrale e ambito: ben più che in Vietnam o in Corea la vera guerra fredda si è combattuta qui da noi per 40 anni tra spie, stragi, scontri, bombe, crisi energetiche e politiche. E ancora oggi, volenti o nolenti, siamo ancora alle prese ogni giorno con lo Straniero: sia che arrivi per mare sotto forma di disperati, sia che scenda in orde cafone di turisti arricchiti dall’Oriente, sia che lo facciano gli USA con la longa manus dello strapotere dei giganti di Internet, ci siamo sempre alle prese.  

Eppure, contraddizioni della Storia, proprio questa Italia così giovane e in balìa dello Straniero è al contempo la prima, più antica e potente repubblica di sempre. Nel 509 a.C. la plebe romana incitata da Lucio Giunio Bruto fece cadere il tirannico Re Tarquinio il Superbo: da allora in poi al Rex si sostituì la Res, ben più di uno straordinario gioco di parole. Dalla Res Privata del Rex, siamo passati alla Res Publica del Popolo: come perfettamente scriveva Cicerone, Est igitur res publica res populi… (Dunque la Repubblica è la cosa del popolo).  Ma ahinoi, come avvenne secoli dopo nella Russia dei Soviet, tutto sarà anche del popolo, ma il potere per gestirlo è nei suoi rappresentanti. E tutti i guai cominciano qui, perché come diceva Isocrate tradotto proprio dai latini, alii recte, alii perperam causam populi agunt, alcuni l’interesse del popolo lo fanno rettamente, ma altri in mala fede…

La Repubblica garantì a Roma cinque secoli di sviluppo, prosperità, conquiste senza precedenti, e il potere assoluto sul Mediterraneo, altro che influenza dello straniero…Ma anch’Essa fu pur sempre assai tormentata dall’inestinguibile desiderio di primeggiare dei suoi grandi condottieri. 

C’è un gustoso vecchio film di Luigi Magni sul Processo agli Scipioni in cui un sornione Gassmann che interpreta Catone il Censore, strenuissimo difensore dei costumi repubblicani, dice rassegnato che “la Repubblica prospera se fatta de gente umile. Ma qui sta er dramma, che la gente umile se stanca, e cerca l'omo grande…” E di uomini grandi che tentarono di farsi un boccone della Repubblica Roma ne ebbe a bizzeffe: dagli Scipioni ai Gracchi, da Mario a Crasso, da Pompeo a Catilina, fino ai due che più ci andarono vicini, Silla e Cesare, e a colui cui riuscì definitivamente l’impresa, Ottaviano poi Augusto. E se ci pensiamo, come la nostra Prima Repubblica fu quella dei grigi ma efficienti uomini di partito, così la Seconda Repubblica è quella dei “leaders” e dei loro “circoli magici”, tanto a Destra quanto a Sinistra.

Non fu però solo vanità: alcuni di questi grandi uomini romani, l’immenso Giulio Cesare su tutti, capirono che la Repubblica era al capolinea di suo, e che solo l’Impero poteva garantire a Roma altri cinque secoli di vita con espansioni e conquiste inimmaginabili; e tuttavia non mancarono della Repubblica altrettanto straordinari e irriducibili difensori, tra i quali il già citato Marco Porcio Catone e il più grande ancora che fu senza dubbio Marco Tullio Cicerone, che pagò la sua fedeltà repubblicana con la testa porta alle spade dei sicari di Antonio nella sua villa di Formia, pochi mesi dopo l’assassinio di quel Cesare che tanto aveva contestato. 

Tra il 55 a.C. e il 51 a.C., Cicerone, in una Repubblica ormai morente, scrisse sei libri suddivisi in tre giornate immaginarie di dialoghi tra grandi romani illustri, che chiamò proprio De Re Publica. Merita, in conclusione e facendo gli auguri alla Nostra, riportare quanto Cicerone fa dire a Scipione l’Africano:  

“Dunque – disse l’Africano – la Repubblica è la cosa del popolo, e popolo non è ogni unione di uomini raggruppata a caso come un gregge, ma l’unione di una moltitudine stretta in società dal comune sentimento del diritto e dalla condivisione dell’utile collettivo. E la prima causa di quell’associarsi è non la debolezza, quanto un naturale istinto all’aggregazione; perché la specie umana non è incline a vivere separata né a spostarsi da sola, ma generata in modo tale che neppure nell’abbondanza di tutti i beni vuole vivere la vita nella più assoluta solitudine”.

(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

Francesco Martelli


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