4 luglio 2021

Scrittura e monachesimo: binomio di civiltà, storia d’Europa

Un archivista si deve preoccupare anzitutto della conservazione del proprio bene culturale, l’archivio, e deve dunque ben conoscere la materia di cui il proprio bene è fatto: la carta. La storia della carta e quella del monachesimo occidentale vanno raccontate divise fino al loro “matrimonio” che generò due delle più grandi rivoluzioni della storia: la scrittura di massa e il Gotico.

Storia 1.

La carta fa la sua prima “comparsata” nel Mediterraneo intorno all’ VIII° secolo d.C., portata dagli Arabi che avevano tentato di rubare ai Cinesi il segreto della carta di riso. Fino ad allora nei climi meridionali si utilizzava il papiro, fatto con le fibre dell’omonima pianta, mentre nei climi freddi la pergamena, ottenuta dalla pelle rovesciata delle pecore: una pecora, una pagina; per fare un libro (un Codice) ci voleva un gregge intero di pecore. I tentativi di fabbricare la carta si protraggono per secoli con insuccessi alterni utilizzando gli stracci, fino a quando i mastri cartai di Fabriano ottengono nel XIII secolo la carta perfetta: fatta con la fibra di cotone e impermeabilizzata dall’inchiostro con la cellulosa animale, ancora oggi la carta più resistente e migliore al mondo. 

Storia 2.

“Ora et labora”, prega e lavora. Così da secoli ci viene tramandata la “regola” di San Benedetto, ossia quell’insieme di precetti che hanno regolato e regolano la vita dei monasteri o cenobi (da bìos, vita, e koinòs, comune) dal grande Santo di Norcia. La “regola” è ovviamente molto più articolata e non vi è traccia espressa dell’ “ora et labora”, che invece è una locuzione successiva usata da monaci ed abati di ogni epoca per riassumere la quintessenza della vita benedettina. Ma la locuzione, così come la usiamo e la troviamo oggi, è incompleta: sempre negli scritti dei grandi monaci ed abati vi si trova una parola in più: “lege” .

Ecco che dunque la quintessenza del monachesimo occidentale si può riassumere con “ora, lege, et labora: prega, leggi, lavora”, dove con quel “leggi” si intende studiare, leggere, scrivere ed anche e soprattutto tradurre e copiare. 

Tradere” in latino significa sia raccontare che trasmettere: ecco quindi che tradurre significa sia far comprendere che consegnare. Operazione imprescindibile in questo meccanismo è appunto la “copiatura”. La questione della salvaguardia, diffusione e trasmissione dei testi è preoccupazione assai antica: nella Roma tardo imperiale le grandi famiglie dei Nicomachi e dei Simmachi avevano destinato ali intere delle loro immense dimore agli “scriptoria”, ossia laboratori dove decine di amanuensi copiavano i testi più importanti dell’antichità e li inviavano ai confini dell’Impero. Operazione che si rivelò fondamentale: di tutte le centinaia di testi custoditi nell’antica Roma si è salvato solo il Codice Virgilio Vaticano, tutto il resto del patrimonio classico lo dobbiamo a testi accumulati nelle periferie imperiali come l’Irlanda. E all’instancabile, gratuito e pazientissimo lavoro di copiatur dei monaci medioevali.

In quell’epoca assai complicata che fu l’Alto Medioevo, che vide l’Europa precipitare nella confusione del crollo del millenario Impero Romano e delle feroci ed inarrestabili scorrerie dei Mori, decisi con ogni mezzo ad imporre la nuova fede del profeta Maometto, i monaci rappresentarono un argine incrollabile di salvaguardia della cultura occidentale. In quella società che tentava spesso goffamente di imitare le antiche istituzioni ed istituti romani per non sprofondare nell’abisso della dimenticanza, con capi politici locali incolti ed in continua lotta militare tra di loro in una realtà divisa tra contadini e mercanti, ma composta da infiniti microcosmi sconnessi tra loro in cui la città e la campagna erano due mondi in totale antitesi eppur dipendenti l’uno dall’altro, si impose la figura del monaco : “Is qui luget”, colui che piange, così veniva chiamato.  Perché piange? Piange per la miseria in cui la società occidentale è sprofondata, e decide allora di chiamarsi fuori da essa e di inseguire un cammino di purificazione e perfezione che si basa appunto su tre imprescindibili assunti: la preghiera per la salvezza della vita celeste, lo studio per la salvezza del sapere, il lavoro per la salvezza della vita terrena. Ecco che il monaco, figura al contempo ascetica, economica e culturale diviene di fatto il “player” o “l’infuencer” come diremmo oggi di tutta una società: standone fuori ne influenzava ogni decisione. I casi estremi sono numerosissimi: dagli abati di Cluny, senza la cui benedizione nessuno saliva sul trono di Francia, a San Simone di Crepy, nipote dell’onnipotente Raul di Vermandois, che divenne monaco eremita e finì per essere il più grande mediatore politico del suo tempo, capace di ridurre alla ragione Papi e Re.

I monasteri divengono in breve tempo dei perfetti microcosmi di ricchezza, operosità, tecnologia, sviluppo, oltre che veri e propri bastioni del sapere: “claustrum sine armario, quasi castrum sine armamentario”, un convento senza biblioteca è come una fortezza senza un’armeria si diceva. Ed ecco che le nostre due storie, quella della carta e quella del monachesimo, si innestano mirabilmente generando due dei cambiamenti epocali dell’Europa, la penna d’oca e il Gotico.

Per secoli la scrittura è avvenuta attraverso il calamo: una cannuccia con cui si poteva scrivere una sola lettera per volta, intingendo ogni volta nell’inchiostro. Un lavoro lunghissimo, che limitava enormemente la produzione documentale fino a quando in Francia, a Parigi, si fa una scoperta paragonabile a Internet: la penna d’oca. Intingendola una sola volta si potevano scrivere frasi intere: una rivoluzione copernicana che fa esplodere la produzione documentale e che fa passare i regni dalla gestione “ferro e fuoco” alla gestione amministrativa per editti, dispacci e documenti. E questa scoperta si deve quasi certamente ai monaci parigini, tanto che secondo alcuni linguisti il termine “moderno” deriverebbe dalla crasi di “Modus Parisiensis”, cioè “alla maniera di Parigi”, indicando in questo la enorme rivoluzione che da quella città si propagò in tutto il mondo di allora.

Ma la penna d’oca e la copiatura incisero profondamente anche sull’architettura: le piccole finestrelle romaniche non consentivano di lavorare con la luce naturale per molte ore, occorrevano finestre molto più grandi. Ecco che proprio in quella Parigi, e proprio dove i monaci copiavano instancabilmente, il grande Abate Sugerio di Saint Denis “inventa” lo stile gotico, destinato a cambiare per sempre l’architettura umana con i suoi slanci vertiginosi e le sue enormi finestre vetrate.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

 

Francesco Martelli


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