Ciò che preoccupa nella vicenda dello studente di Abbiategrasso che ha accoltellato la sua prof. - in una istituzione educativa, non in una bisca, una discoteca o un bar malfamato - non è solo o tanto il gesto in sé, gravissimo, ma la facilità con cui l'atto si è realizzato, dopo una serie di preavvisi del tutto sottovalutati - sei note disciplinari in pochi mesi e il padre che afferma "non ne sapevo nulla" - e subito dopo, quando le ferite materiali e morali sono ancora aperte, si dichiara che il responsabile chiederà perdono, assistito dal suo avvocato, naturalmente. Ormai è diventato un rituale: si ferisce, si offende gravemente, oppure si ammazza e subito partono le scuse, forse per godere degli sconti di pena previsti dalla riforma della giustizia riparativa, previsti dalla legge Cartabia. E' come se il peccatore andasse dal confessore assistito dal suo avvocato, per vedere se i peccati mortali ("materia grave, piena avvertenza, deliberato consenso", mi avevano insegnato nelle ore di religione) si possono trasformare in veniali.
Mi sembra che la faccenda del perdono sia una questione assai più seria. Non viene a nessuno in mente che prima il colpevole, veramente pentito, debba chiedere perdono alla vittima e alla comunità che ha lacerato? Perché un'offesa di questa gravità oltre alla legge, offende le relazioni tra le persone, il legame di solidarietà che le unisce. Tra l'altro, leggendo i Vangeli, chi perdona non è l'uomo, ma il Padre: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno", dice Gesù sulla Croce. Il tempo per il perdono, come quello del lutto, è lento, lungo e angosciante. Inoltre, il perdono può essere negato. Chiedere perdono è sempre un rischio.
D'altra parte, chiedendo perdono, può cadere l'accusa di tentato omicidio aggravato, magari giustificato da una diagnosi di "disturbo paranoide"? "Da quanto tempo questo ragazzo meditava una sorta di vendetta e perché nessuno, a scuola, a casa, ha capito che la tensione saliva fino a rischiare di esplodere?” si è chiesta giustamente Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minori di Milano, "parlare di disagio adolescenziale rischia ormai di banalizzare: la situazione sembra scappata di mano, soprattutto in termini di comunicazione tra ragazzi e adulti di riferimento".
Ciò che mi preoccupa maggiormente non sono tanto i ragazzi, quanto troppi adulti incoscienti e irresponsabili. Tanto è vero che l'altro giorno, in TV, un "esperto" sosteneva che bisognerebbe, nelle "scuole medie", reintrodurre l'economia domestica, con un ritorno alla manualità, così almeno i ragazzi imparerebbero a tenere in ordine la propria cameretta. Tenere in ordine la propria stanza, prepararsi da soli la cartella, allacciarsi le scarpe da soli, sapere sbucciarsi una mela prima dei 14 anni, è compito della scuola? Ricordo il mio amico e collega all'ITIS Torriani di Cremona ing. Racchetti, che dopo un colloquio con due genitori, disse: "Questi vogliono comprare al ragazzo il motorino, due mesi prima di sapere se sarà promosso!". Sono passati più di due decenni, e già allora le famiglie non collegavano più il premio all'impegno e al merito. Perciò ritengo indispensabile un incontro/confronto schietto tra uomini e donne della scuola con donne e uomini della famiglia, per analizzare in dettaglio, sulla base di esperienze, esempi, vissuti le carenze dei rispettivi modelli educativi.
Le avvisaglie di quanto sta avvenendo ogni giorno nelle nostre scuole sono state studiate ormai da una trentina d'anni, almeno. Cito le osservazioni di Pietropolli Charmet, uno dei maggiori esperti italiani in adolescenza, che negli anni '90 già diceva che viviamo in una famiglia dove padre e madre non intendono più generare il minimo dolore ai figli per educarli, per renderli veramente autonomi e responsabili, consapevoli delle conseguenze dei loro atti". In una ricerca universitaria fatta a Cremona una decina di anni fa, attraverso interviste ai genitori, risultava che nessuno usava mai la parola "responsabilità": essere consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni, riconoscere come proprie le azioni compiute nel passato. A che età si insegna la responsabilità?
In sintonia con lui, Massimo Recalcati osserva che nella famiglia di oggi i genitori sono preoccupati di non essere amati dai figli, e perciò rinunciano al proprio ruolo educativo, concedendo loro tutto quello che chiedono per farsi accettare. Il fallimento dei figli, anche un semplice insuccesso, è percepito come il proprio fallimento. Perciò li difendono in ogni caso, pagando una serie di avvocati che sollevano obiezioni di ogni sorta per impedire che il figlio venga punito. Si aggiunge a queste osservazioni Umberto Galimberti: le ragioni del malessere di tanti ragazzi «vanno cercate nel collasso educativo della famiglia e della scuola, avvenuto con il progressivo passaggio dalla società della disciplina che si regolava sul ciò che era permesso e ciò che era proibito, alla società dell’efficienza e della performance spinta, spesso misurata dal numero dei like e dei follower a cui viene affidata la propria identità». Vittorino Andreoli, invece, sposta l'attenzione su un altro versante estremamente critico: la mancanza del senso del tempo e della responsabilità: "la vita viene percepita come una serie di momenti distanziati l'uno dall'altro. Non si va oltre quello che interessa oggi o il fine settimana o, al massimo, le vacanze. Non c'è il futuro, c'è un empirismo esistenziale che è totalmente amorale". E aggiunge: "viviamo in una società che, attraverso gli strumenti digitali, ha sviluppato le facoltà intellettive di capire, di informarsi, ma non ha fatto alcun passo avanti nella capacità di gestire gli affetti" e che nel complesso "non si pone il problema del senso di colpa".
Sulla stessa linea Paolo Crepet: "Abbiamo un problema di educazione, non di disagio. Il disagio nasce dalla totale vacuità in cui crescono questi ragazzi. La scuola non deve essere una psicoterapia di massa. Appena ieri il ministro Valditara ha rassicurato i maturandi, "l'esame quest'anno sarà una chiacchierata”. Ma perché, che senso ha? Con il 99 per cento dei promossi, il ministro Valditara sente ancora il bisogno di rassicurare? Il fallimento della scuola non è solo colpa sua, ma sua e dei tanti e delle tante che sono arrivati prima di lui. Certo lui non si distingue per discontinuità». E aggiunge: «Se prima di andare a scuola mi fanno lo zainetto, se ho insomma dei genitori che da sempre fanno tutto per me, durante l’adolescenza alla prima frustrazione crollo. L’unico risultato è che abbiamo abbassato la loro capacità di aggredire l’esistenza. Trent’anni fa scrissi un libro sui suicidi giovanili. Da allora non sono mai aumentati, il numero è sempre lo stesso, troppo alto: sono due al giorno. Ma contarli non serve a niente. Come non serve a niente trasformare la scuola in un centro d’ascolto".
Proprio oggi leggo in rete del suicidio di un ragazzo di 16 anni di Messina, accompagnato dallo sfogo, intelligente e sofferto, di una docente. “Le risorse: scarse quelle pertinenti, tante quelle ‘altre’ e per nulla pertinenti. I sistemi di monitoraggio, Invalsi, Pcto, orientamento in entrata, in uscita e di ogni santo del paradiso, Pon burocratici e ottusi, seminari per ogni scemenza a fronte di strumenti che davvero sarebbero di aiuto: più personale, più edifici, più supporto psicologico, laboratori stabili di attività socializzanti e creative. Una visione, diffusa presso le istituzioni europee e italiane, della scuola come una fabbrica che crea produttori e consumatori di basso profilo non aiuta, quando non ostacola, chi sta in prima linea, chi soffre, gioisce con i ragazzi. Ma noi si crede e si resiste”.
Di fronte a tutto ciò, il ministro Valditara, che vuole mandare lo psicologo in ogni territorio, fa la figura di quel volontario che parte per il fronte ucraino con un pacco di cerotti e qualche disinfettante, sperando di attenuare le tragedie di quella guerra. Al fatto che si sono verificati più di una trentina di casi di aggressione a docenti dall'inizio dell'anno scolastico, il ministro risponde: "Non siamo in America. Occorrono psicologi". Riguardo alle critiche sul mancato finanziamento del “sostegno psicologico”, introdotto durante il Covid e poi depotenziato dal governo Meloni, il Ministro ha spiegato che si trattava di una misura emergenziale. A pensare male, diceva Andreotti, si fa peccato, anche se quasi sempre ci si azzecca. Togli il sostegno psicologico che già c'era e poi proclami che vuoi inaugurare un sistema territoriale di sostegno psicologico per le scuole. Ti vuoi forse vantare di avere aiutato la scuola, mentre prima non si faceva niente? La stessa frequenza con cui il ministro fa piovere interviste, ormai più frequenti dei nubifragi sull'Emilia-Romagna, in cui l'unico tempo verbale usato è il futuro (farò, introdurrò, ci sarà ecc.) desta giusti sospetti. "Exscusatio (laudatio) non petita, culpa manifesta", scrivevano i latini. Se stai veramente facendo qualcosa di concreto e di utile, c'è bisogno di ripeterlo tre volte al giorno? A mio avviso non ci si rende conto che in ballo non c'è qualche crepa del sistema scolastico, ma un deragliamento dell'intero assetto educativo, che coinvolge i suoi pilastri: il complesso delle relazioni educative che hanno nella famiglia e nella scuola, considerate in un tutto organico, i loro fondamenti.
Per rimediare al disastro, al di là di belle interviste sul fatto che la scuola deve rispettare la Costituzione e offrire ad ogni studente la possibilità di una formazione individualizzata che ne faccia emergere le capacità e ne sviluppi le potenzialità, il Ministero dell'Istruzione e del Merito intende dal prossimo anno sc. 2023/24 introdurre due figure inedite: quello del docente tutor e del docente orientatore, destinate ad un complesso di 70.000 classi del biennio e dell'ultimo anno delle superiori. A loro potrebbero andare dagli 80 a ai 150 euro al mese in aggiunta allo stipendio. Il ministro definisce questa come “la più importante riforma scolastica dall’inizio della legislatura”, che mira a realizzare un concetto di merito nell’ambito della formazione e dell’istruzione. Dice il Ministro: Per quanto riguarda il disagio giovanile, la figura del docente tutor, che ha fra l’altro particolari competenze psicopedagogiche, può svolgere un ruolo importante. Il tutor dovrà curare la personalizzazione dell’insegnamento, in team con tutti gli altri docenti. Il disagio si combatte anche dando al ragazzo la possibilità di realizzarsi, di coinvolgersi”.
Questo è il punto. Come saranno preparati questi tutor? Udite, udite! Il ministero avvierà un corso di formazione on line di 20 ore! Nuove figure a cui affidare una rivoluzione educativa e didattica, su cui non si stanzia nulla di serio! Se si hanno questi obiettivi, perché non si prevede un fondo adeguato? Invece si investe dieci volte tanto per incrementare le tecnologie informatiche della scuola italiana. Grazie, signor Ministro, lei sì che ha capito!
Come al solito, le famiglie e le scuole si dovranno arrangiare da sole. Per questo, questa è una mia proposta, che a partire da Cremona e dagli Istituti comprensivi della provincia, in autunno si apra un confronto vero, serio, spregiudicato, tra dirigenti, personale scolastico, genitori, partendo non dalle richieste all'altro (vedo in te queste e queste carenze, incapacità, lacune) ma dall'ammissione delle proprie insufficienze: "noi non sappiamo più cosa fare di fronte a questi problemi". Bisogna saper chiedere aiuto e solidarietà. Ridiscutere modelli educativi-diseducativi consolidati, coinvolgendo, quando si è raggiunto un accordo su alcune scelte prioritarie, anche gli studenti, di ogni ordine e grado. Molti dei quali sono più consapevoli, sensibili e intelligenti di quanto pensano gli adulti di riferimento.
Perché partire, in un confronto aperto, dalle proprie insufficienze, dalla proprie incapacità, dai propri limiti, e non dalle denunce? In una società come la nostra è necessario superare il dramma del disinteresse. "Io non c'entro, la colpa è degli altri". Cominciamo ad ammettere le nostre miserie di fronte all'altro. A chiedere aiuto, partendo dalla naturale solidarietà che esiste tra gli uomini e le donna. La domanda non è più "che cosa faranno gli altri", ma "che cosa vuoi essere tu in relazione agli altri e di fronte a te stesso". Anche alle famiglie, ai genitori, agli educatori occorrerebbe rivolgere la stessa domanda. E a qualche Ministro, che dovrebbe smetterla di usare "parole, parole, parole...".
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