Tolkien e il terrore della morte, il positivismo capitalista e la Resurrezione di Pasqua
“E la paura della morte sempre più gravava su di loro, che la ritardavano in tutti i modi possibili. Presero a costruire grandi case per i loro morti, mentre i loro sapienti si lambiccavano incessantemente onde prolungare i giorni degli Uomini (…). E quanti di loro continuavano a vivere, desideravano beni sempre più numerosi e numerose ricchezze (…). E Atnamir, l'ultimo Re, mosso com’era dal desiderio di sottrarsi alla morte anziché affidarsi alla speranza (…) visse fino a tardissima età, aggrappato alla propria esistenza al di là di ogni gioia, finchè non si ritrovò privo del senno e della virilità, negando al proprio figlio la regalità mentre questi era nella pienezza dei propri giorni”.
Così, in un’epoca arcana che si perde nei millenni della fantasia, J.R.R. Tolkien, il papà del Signore degli Anelli, scriveva nel suo vero capolavoro rimasto incompiuto, il Silmarillion: la morte, che era stato “il dono” di Ilùvatar (Dio) agli uomini, le sue creature predilette, si era per loro tramutato in dolore, tenebra e sgomento. Quel dono che doveva renderli, proprio perché “temporanei” e quindi di passaggio, più indomiti e passionali, inquieti e creativi.
La paura della morte ci accompagna dunque da sempre, e da sempre alla morte cerchiamo non solo di dare un senso, ma anche di allontanarne l’incontro. E ci sono epoche, che non a caso coincidono con quelle di maggior benessere e sviluppo raggiunto, in cui l’uomo proprio non vuole saperne di cedere il passo… al trapasso. Ma anche in questo c’è una sostanziale differenza: un conto è “eternarsi” come diceva Dante, e cioè sfidare la morte lasciando di sé la migliore traccia possibile, un conto il non voler in alcun modo accettare l’idea che prima o poi dobbiamo lasciare posto ad altri.
Mai come in questo anno di pandemia ho avvertito nella mia società un terrore schizofrenico della morte e l’ossessione maniacale di non farla vincere. E non a caso tutto è iniziato nel momento di maggiore benessere dell’Occidente, con il trionfo del capitalismo iper-consumista internauta che ha fatto di Amazon e affini degli stati sovranazionali. Non si deve morire, costi quel che costi: anche al costo del “non-vivere”. Ne parlavo con un amico cardiologo bresciano giorni fa: prolunghiamo esistenze di corpi svuotati e lo chiamiamo progresso della medicina, rifiutando l’idea che il nostro ciclo si deve concludere per lasciare spazio ad altri, mi dice lui con la schiettezza di chi nel confine tra la vita e la morte abita la sua quotidianità.
E’ in parte conseguenza di quello che per anni i filosofi e i sociologi hanno dibattuto come la deriva sull’uomo greco dell’uomo biblico: il greco era diffidente nella natura e negli Dèi e pragmaticamente razionale nell'affrontare la vita, mentre misticamente fiducioso e affidato ad un Dio buono era il credente giudaico-cristiano. Ma non possiamo dimenticare che poi sono arrivati Leibniz e il positivismo: l’idea settecentesca, oggi divenuta ipertrofica, che questo è il migliore dei mondi possibili perché abbiamo la scienza e il progresso, che risolvono i problemi che la natura, nel frattempo diventata una nostra povera vittima, ci sottopone. A problema risposta, a malattia medicina. E oggi che davanti alla malattia non c’è medicina, trionfa il panico: e segreghiamo i piccoli perché l’orrore della conta giornaliera degli ottantenni ci è inaccettabile (piccoli che, segno inquietante della natura che torna a scegliere, non si ammalano e non muoiono).
L’uomo greco era anche l’uomo “politico”, colui che viveva attivo nella sua Pòlis, tanto che coloro che dalla vita sociale e politica si chiamavano fuori erano “òi idiotès”, gli individui privati (gli idioti… da lì in poi). Fino a ieri eravamo non a caso al più basso livello di partecipazione civica che si ricordi negli ultimi decenni, e infatti in un batter d'ali siamo reclusi nelle nostre case come delle monadi davanti ad una tecnologia ipnotica. Oi Idiotès..?
Ma anche l’uomo biblico, proprio perché confidava in Dio e in una vita dopo la vita, della morte sapeva non avere paura, arrivando addirittura a chiamarla “sorella” come il santo di Assisi: e infatti Pasqua non è la festa dell’immortalità, ma all’esatto contrario la festa di una morte dolorosa che apre ad una vita nuova e perfetta.
Oggi, che tutto il nostro precario equilibrio si regge maldestramente su delle piccole fialette di vaccino, il positivismo scientifico-capitalista non ci tranquillizza più, e ci accorgiamo che forse dobbiamo tornare a concepirci più mortali in un mondo in continuo divenire: chi più fiducioso in un’altra vita dopo, chi più risoluto in questa vita unica, ma tutti bisognosi di tornare a fare i conti con la fine. Che non è solo un dramma, ma molto di più: la ragione del lasciare del nostro passaggio la traccia migliore possibile, invece di costruire esistenze sterilizzate dai microbi, ma anche dalle gioie.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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