Trinità, un altro modo per dire che “Dio è amore”
Chi di noi, almeno una volta nella vita, non ha cercato di immaginare cosa ci sarà dopo la morte e come saranno il purgatorio, l’inferno, il paradiso? Tutti influenzati dal sommo poeta Dante – del quale abbiamo appena celebrato i 700 anni dalla morte – li abbiamo sempre concepiti come luoghi sfacciatamente fisici: il regno di Satana come una serie di antri soffocanti di fumo, di fiamme, di urla strazianti e di diavoli con corna e denti aguzzi intenti a tormentare anime dannate con i loro tridenti e loro beffe, mentre il Regno dei Cieli come una serie di candide e soffici nuvolette sulle quali angeli e beati, dai biondi boccoli, cantano con soavità le lodi di Dio. Una regressione fanciullesca che però, nel fondo, fa trasparire una chiara convinzione: la perdizione eterna non è altro che la solitudine estrema, il fallimento dell’umano, il violento rifiuto del proprio essere-in-relazione con Dio e con gli altri, che è il costitutivo dell’uomo.
Mi hanno sempre impressionato e fatto pensare le raffigurazioni artistiche dell’inferno, come il magnifico affresco di Luca Signorelli nella cappella di San Brizio nel maestoso duomo di Orvieto, immancabile tappa intermedia di tanti pellegrinaggi a Roma. In quest’opera, dipinta dall’artista e dai suoi discepoli tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500, traspare subito come l’inferno sia solitudine e dolore: una folla immensa fatta di anime perse torturate dai demoni, ma dove ciascuno è solo con sé stesso, così soffocato dalle sofferenze inflitte, ma anche dalla propria ira e dal proprio rancore, da non vedere l’altro. Tante “monadi” impegnate a maledire il giorno in cui sono nate.
Tutt’altra atmosfera si respira in quelle opere in cui viene rappresentato il Paradiso: solitamente un grande coro angelico, una comunione di voci e di cuori, un luogo di serenità, di armonia, di condivisione pura, di umanità realizzata, di relazioni vere che trovano la loro sorgente in Dio, che è, lui per primo, comunione di amore.
L’inferno è dunque la negazione dell’umano, è contraddizione pura, è negazione rabbiosa dell’identità profonda del proprio essere, mentre il paradiso è l’esaltazione della propria umanità, è l’umano portato alla pienezza, alla completezza, cioè, in ultima analisi, la santità. Sì, perché il santo non è altro che l’uomo che ha raggiunto il vertice della maturità umana!
Ciò che ci rende felici, dunque, ciò che ci realizza e ci appaga è la capacità continua di andare verso l’altro, di creare legami, relazioni, di immergerci in una comunione autentica dove ci si sente accolti, valorizzati, amati. D’altra parte è nell’incontro con l’altro che io riesco a capire chi sono, cosa cerco, cosa mi muove: il senso profondo della vita! La Genesi descrive mirabilmente l’insoddisfazione di Adamo solo nel paradiso terrestre: c’è un tassello mancante fondamentale in quel luogo ricco di frutti e di bellezza! Solo quando Dio crea la donna, cioè un interlocutore con la stessa dignità di Adamo, che può stargli di fronte e guardarlo negli occhi, allora, in quel momento, Adamo si sente davvero realizzato, compiuto. In Eva Adamo scruta sé stesso e si misura con sé stesso!
E questo perché? Perché siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio, di un Dio, però, che non è solo, ma che è, come dicevamo, comunione di amore. La Santissima Trinità, lungi dall’essere un astratto teorema, un dogma decifrabile solo da teologi esperti, una formula creata a tavolino da chissà quale mente contorta, è, “semplicemente”, un altro modo per dire che Dio è amore! È per amore che il Padre genera continuamente il Figlio, è per amore che il Figlio volge continuamente il suo sguardo al Padre, è solo per amore che lo Spirito, che è l’essenza dell’amore divino, straripa da quella comunione celeste per raggiungere ogni uomo e per rinnovarlo.
E questo “marchio di fabbrica” è, allo stesso tempo, “maledizione” e “benedizione” per l’uomo. È “maledizione” perché ogni volta che scegliamo di ripiegarci su noi stessi, di chiuderci agli altri, di scegliere l’egoismo e il rancore, di abbandonarci alla finzione e alla menzogna, di preferire la solitudine alla relazione, non facciamo altro che ribellarci alla nostra natura più intima, di contraddirci e di creare quindi un disagio profondo in noi stessi il quale, inevitabilmente, sfocia nell’infelicità, nell’irrequietezza, nella ricerca continua di un qualcosa in più che mai troveremo! Il peccato, in fondo, è già una condanna perché non fa altro che menomare la nostra umanità che, al contrario, è pienamente sé stessa, cioè benedetta, solo quando si apre alla comunione con Dio e con il prossimo, quando sceglie di donare piuttosto che depredare, di offrire piuttosto che prendere, di perdonare invece di vendicarsi, di esaltare il bene invece di rimarcare sempre e solo il male.
Essere-per-gli-altri, essere-in-relazione-con-gli-altri… marchi di fabbrica straordinari, che salvano l’uomo dalla tirannide dell’autoreferenzialità e dal solito delirio di onnipotenza.
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