Una parabola per imparare il “Padre nostro”
Pochi versetti prima della pagina evangelica che si legge nella quarta domenica di quaresima, l’evangelista Luca narra di un’altra parabola che parla di un banchetto. Mentre Gesù si trova a pranzo nella casa di un fariseo che lo ha invitato, discorrendo con gli altri commensali, racconta di un uomo che ha preparato una cena alla quale invita molte persone; queste, dopo aver inizialmente accettato, non si presentano per diversi motivi. Di fronte a questo rifiuto, l’uomo manda i suoi servi a chiamare storpi, ciechi e zoppi (persone che nella mentalità ebraica erano escluse dalla possibilità di vivere in pienezza il culto a Dio) ed essendoci ancora posto alla mensa, dice ai suoi servi di uscire per le strade e di “costringere ad entrare” quanti trovano, in sostituzione di quelli che hanno rifiutato l’invito (cfr. Lc 14,15-24).
Anche nella parabola di oggi si parla di un banchetto che l’uomo, padre dei due figli, offre per il ritorno a casa del figlio minore. Al banchetto, questo figlio, partecipa da festeggiato, perché dopo essersi allontanato dal padre è ora ritornato, ed è come se fosse morto e poi tornato in vita.
Alla medesima tavola festosa il figlio più grande di questo padre non sappiamo se si sieda, perché considera ingiusto che a suo fratello sia riservato un tale onore dopo che ha dissipato quella parte del patrimonio che spettandogli si è fatto dare, mostrandosi incapace di gestirla.
Il racconto del padre e dei due figli che oggi ci viene consegnato lo si può girare e rigirare in molti modi, tutti utili e significativi per la vita di fede. Si può rileggere tutto considerando le relazioni familiari dei tre personaggi, guardando la storia attraverso gli occhi del padre, attraverso gli occhi del figlio maggiore oppure attraverso quelli del minore, e forse tutti spontaneamente lo facciamo a partire dalla nostra condizione di vita, come genitori o come figli, sorelle o fratelli di qualcuno. Si può rileggere il testo provando ad associare ad ogni personaggio del racconto qualcuno: Dio, il peccatore, l’uomo giusto. Si può rileggere il racconto pensando quanto giustizia e misericordia si incontrino e si scontrino in questa storia. Si può anche andare a trovare le colpe di tutti i personaggi, vedendo debole il padre, irriconoscente il figlio minore, intransigente il maggiore.
Gesù racconta la parabola per parlarci di Dio, per raccontarci che la sua preoccupazione, in fin dei conti, è sempre la stessa: fare in modo che tutti abitino nella sua casa, che tutti partecipino alla festa con Lui. Per far questo Egli manda inviti, attende pazientemente, esce per convincere. Non si risparmia per noi, come dicono anche le due brevi storie che precedono quella che oggi abbiamo letto, la storia della pecora perduta e della donna che ha smarrito una delle sue monete.
Gesù racconta la storia del padre e dei suoi due figli per inquietarci. Per farci chiedere se e come noi abitiamo la casa di Dio, se e come noi ci sediamo al suo banchetto. Gesù ci racconta tutto ciò affinché guardiamo in profondità noi stessi e ci chiediamo se il nostro sentirci “dentro la casa” è da schiavi o da figli. Se Dio tutti chiama ad entrare, non è indifferente il modo in cui si abita con lui. Gesù ci dice che Dio vuole che noi abitiamo la casa da figli. Ecco la sfida che ci lancia la pagina di Vangelo che oggi ascoltiamo. È peccatore chi dissipa la sua dignità vivendo in modo dissoluto, ma è peccatore, in modo diverso, chi la vive come un obbligo e non come un dono. In forme diverse, umilmente e debolmente, il padre si adegua ai suoi figli, stando loro vicino anche quando uno dei due se ne va lontano, perché sperimenti il desiderio di abitare con il padre, quel desiderio che porta alla scelta libera di percorrere la via del ritorno. Chi si allontana e torna, riscopre ciò che è suo e lo è sempre stato, anche se stupidamente ne aveva chiesto solo una parte. Chi resta, non meno stupidamente ci dice il racconto, potrebbe dimenticarsi di quel che possiede e vorrebbe gliene fosse concessa una piccola porzione per far festa da solo, non capendo che se la può sempre prendere, perché è già sua, perché il padre non ne sarebbe geloso. Ascoltando oggi questo racconto, riconosciamo che il cammino della quaresima ci vuole portare a dire a Dio “Padre”, con libertà e fiducia.
C’è una seconda percezione necessaria per poter abitare nella casa di Dio. Oltre che sapersi figli, è indispensabile anche riconoscersi fratelli, altrimenti mancherebbe qualcosa di fondamentale. Colui che è Unico, perché Unigenito del Padre, ha voluto divenire uomo, fratello di tutti noi, e così per primo ha aperto la via della fraternità. Il peccato dell’uomo, di ognuno dei due figli del racconto, non è solo dimenticarsi del padre, ma anche ignorare il fratello. Per abitare la casa di Dio ci vuole un restauro delle relazioni. Accanto al coraggio di dire a Dio “Padre” ci vuole il coraggio di aggiungere “nostro”, per abbracciare ogni uomo, il coraggio di abbracciare anche chi ci sembra lontano, lontanissimo; abbracciarlo come un fratello che ha bisogno anche del mio amore.
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