Vestire di bianco in estate: dall’aristocrazia alla rivoluzione, un colore per molti ma non per tutti
Anche quest’anno, inesorabile come la dichiarazione dei redditi, è arrivata la calura estiva, ed inizia per me, adoratore del freddo e dei cieli dai grandi gesti grigi, un calvario trimestrale senza vie di fuga.
Non ho mai condiviso, né mai lo farò, la deriva banalista con cui nella società contemporanea si fa coincidere il paradiso in terra con una spiaggia assolata e rifuggo come dalla peste l’idea del lettino al mare o peggio della piscina condivisa. Mi condanno, per lo più rassegnato e sfatto, alle insopportabili afe padane con un’unica consolazione: posso indossare il bianco.
Chi scrive discende da una famiglia di “padroni”, e ricordo bene che, in effetti, d’estate mio nonno portava sempre dei calzoni chiari e delle camicie bianche di lino con un capello in bali-batur o in Panama (che si chiama così anche se si fa in Equador). Io, benché non sia più padrone di alcunché, ho mutuato quasi per riflesso o abitudine l’uso del bianco in estate: per me l’estate coincide tassativamente con le braghe bianche, dismetto senza appello il grigio e il blu e devo per forza assumere il complesso candore del bianco e del beige.
Sciur padrun da li beli braghi bianchi, Fora li palanchi ch'anduma a cà…
Così recita la celeberrima canzone resa famosa da Gigliola Cinquetti ma che fin dalle fine dell’800 veniva cantata dalle Mondine, le ragazze povere di Lombardia e Piemonte che si spaccavano la schiena sotto una calura infernale tra insetti micidiali per “mondare” il riso e guadagnarsi la stagione, tra le angherie dei “capi” e le storie d’amore coi padroni o i loro figli: Son figlio d’un signore, ed io l’amore lo so ben far…recita un’altra delle famose canzoni dell’epoca. Quelle belle braghe bianche dovevano veramente spiccare e rimanere impresse nella memoria delle mondine, per divenire così famose. Ed in effetti, le belle braghe bianche coincidevano anzitutto col giorno di paga, ricompensa meritatissima per quel lavoro terribile, e che veniva consegnata dal “padrone” in persona che, proprio perché ricco, portava le braghe bianche, probabilmente di lino, e belle pulite: gli altri, i lavoranti e i contadini, le avevano nere e di lana pure col caldo, e di certo non potevano permettersi che fossero anche linde. Dovevano dare, quelle leggere impeccabili braghe bianche, un assaggio di tutte le comodità e i privilegi che gli erano negati per nascita. Insomma l’abito bianco era un simbolo sociale estremamente forte.
Non per nulla il cinema e la televisione ci hanno regalato due icone intramontabili del bianco e della “razza padrona”: Rhett Butler in Via col Vento e l’Uomo Del Monte della pubblicità, entrambi consegnati alla iconologia collettiva in abito bianco e cappello di paglia. E come dimenticarsi di Boss Hogg in Hazzard, il Ras della Contea inevitabilmente bianco dal cappello agli stivali?
Ma l’uso del bianco in estate è perfino più diabolico: ha attraversato decenni di potere dagli aristocratici ai rivoluzionari in modo totalmente trasversale, ma sempre elitario: il bianco, sia chiaro, non è per tutti. E se ci facciamo caso, quasi tutti una volta, ad eccezione delle élite, avevano un solo abito e nero, e anche oggi il nero è il colore più diffuso negli abiti di tutti i giorni. L’uomo della società democratica di massa, come diceva sempre Daverio, si veste di nero o comunque in scuro. Indossare un abito nero oggi significa di fatto identificarsi con la massa ma anche trovarsi a proprio agio con essa, e questo lo si deve anche esigenze molto pratiche: anzitutto si sporca molto di meno, ed è molto più facile da abbinare, basta una camicia bianca e una cravatta scura. Esattamente come Magritte ci dipinge, polemico, l’uomo contemporaneo: senza volto ma con bombetta, abito nero e camicia bianca. Ma l’abito nero ha anche avuto la funzione di ammettere alla vita sociale milioni di persone che di fatto ne erano sono state escluse fino agli anni del boom, che non avevano una sufficiente atavica confidenza con i colori e il jet set ma ormai andavano ammessi in società: l’abito scuro era il loro passepartout sociale. Personalmente rivendico per l’uomo l’uso dei colori, e vedere nella insopportabile caldana estiva della città decine di uomini strizzati nei lori abiti scuri mi provoca sempre un certo fastidio: il bianco infatti, dicevamo, non è per tutti. Ma per le élite, siano esse padrone o rivoluzionarie, lo è stato spesso.
Quando il Grande Gatsby, ormai multimiliardario, riesce finalmente a rincontrare l’agognatissima amata Daisy, Fitzgeral non eccepisce: lo veste letteralmente “in abito di flanella bianca, con una camicia grigio argento e una cravatta giallo oro”. Non a caso il cantore pungente delle aristocrazie wasp americane, Tom Wolfe, vestiva rigorosamente di bianco sia d’inverno che d’estate, e nel mitologico film Sabrina di Billy Wilder le giacche bianche da smoking abbondano a tal punto alle feste dei ricchissimi Larrabee che il vecchio patriarca afferma lapidario che sembra un raduno di barbieri…
Ma il bianco è anche il colore di molti rivoluzionari… Chi può dimenticarsi quelle impeccabili e stravaganti casacche bianche candide coi grandi bottoni che portavano Trotsky e Malenkov, due araldi della rivoluzione bolscevica? E lo stesso Stalin, che di certo non era un rinomato dandy, non è stato forse consegnato alla storia in una candida uniforme bianca alla Conferenza di Postdam, dove lui e Truman si divisero il pianeta con buona pace dell’inerme Churchill?
Non è forse passata alla storia dell’immagine quel Che Guevara del 1967, perfettamente rasato coi capelli impomatati e una candida giacca bianca?
E che dire del Vietnam del Sud? Non ha forse fatto storia l’immagine del giuramento di Ngo Dinh Diem, primo presidente della sua repubblica, circondato da uno stuolo di maggiorenti indocinesi tutti rigorosamente in doppiopetto bianco e cravatta nera a Saigon nel 1955?
Insomma in questa afa senza tregua, prigioniero senza scampo, io mi vesto di bianco e viaggio un poco nel tempo passato.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti