Alex incontra Enzo alla Microeditoria di Chiari. Non è mai troppo tardi per essere quel che avresti voluto essere
Alex peperoncino. Enzo se lo gusta e ci sveglia. No, non è l’Alex di Arancia meccanica a stuzzicare con le sue domande fratello Enzo. Quello è un violento, un bullo, un delinquente. Questo è una specie di tafano che, come Socrate, tiene sveglia Atene sonnolenta, cavalla appesantita dalla ricchezza. E Atene non è l’ex priore di Bose poi caduto in disgrazia con grande strepito dei media, e in seguito riaccolto fra le braccia della grande madre Chiesa senza alcun clamore, ma è proprio quella Chiesa che oggi vive grazie a chi la contesta. I due che si confrontano sono Alex Corlazzoli, autore di Diario da un monastero, e Enzo Bianchi, autore di Fraternità, composto, ci fanno sapere, prima della cacciata da Bose. Dunque Alex offre il suo peperoncino, e Enzo lo gusta porgendolo a un pubblico estasiato che lo acclama anche quando viene bistrattato. “Ogni domenica a messa recitate – Gesù, figlio unigenito generato, non creato, della stessa sostanza del Padre – senza capire ciò che state dicendo”. Ovviamente può permettersi di fare una simile affermazione chi ha da poco curato una monumentale traduzione della Bibbia “per i cristiani di tutte le confessioni, ma anche per il lettore laico”. Ma che il pubblico sia grato d’essere chiamato ignorante ci si aspetta accada piuttosto alle conferenze di Umberto Galimberti, il quale si dichiara certo che nessuno, fra le centinaia dei presenti, abbia in casa una Bibbia, e scatena l’applauso. Certo non siamo americani, e negli alberghi non troviamo la Bibbia sul comodino, e non siamo neppure protestanti, ed effettivamente di Sacre Scritture ci intendiamo poco, anche perché ci hanno (o avevano?) proibito di leggerle senza la guida dei sacerdoti autorizzati. Magari però a scuola qualcuno la Bibbia l’ha studiata.
Il confronto fra i due autori si snoda attorno ad alcuni temi cruciali dell’esistenza di monaci e laici, cogliendo lo spunto dall’esperienza vissuta da Alex presso il monastero di Cellole, documentata nel Diario. Innanzitutto l’“ateo” Corlazzoli confessa di essere uscito da quella prova con la percezione di una vicinanza a Cristo. Ma come fa un monaco a sentire e vedere Dio? Fratello Enzo si avvale delle armi filologiche di cui è abbondantemente dotato: quel Dio che Mosè incontra non è quello che risponde, come direbbe un greco, “Io sono colui che sono”, ma piuttosto, con attenzione all’ebraico, “Io sono colui che agisce”, o “Io sono colui che amo”. Da un confronto fra la concezione religiosa degli antichi Greci e Romani e quella degli Ebrei, sappiamo che i Greci rappresentavano gli dei come bellezza. I Romani accoglievano nel Pantheon tutte le divinità dei popoli sconfitti in guerra, ma non potevano accogliere anche quel nuovo Dio che aveva fatto irruzione nella storia del mondo con Cristo, il Messia atteso e riconosciuto come tale dai Cristiani. Dio non si può vedere, è nel vuoto. Il suo volto non si può (ancora) vedere da vivi, perché lo si vedrà dopo la morte. Cristo sì, l’abbiamo visto, e Giovanni ce ne dà la narrazione. Paolo dice che Gesù è “l’immagine del Dio invisibile”.
Da qui prende avvio un discorso affascinante che chiama in causa senza nominarli una serie di filosofi, soprattutto atei. Il Dio invisibile, ad esempio, rinvia al dramma Il diavolo e il buon Dio di Sartre, dove leggiamo: “Vedi questo vuoto che sta al di sopra delle nostre teste? È Dio”. E ancora: “Dio è il Silenzio. Dio è l'Assenza. Dio è la Solitudine degli uomini”. Enzo Bianchi non cita Sartre, ma quelle espressioni apposte in conclusione del saggio di Monod Il caso e la necessità, che nei primi anni ’70, quando fu pubblicato, destò grande interesse nel non ancora trentenne Enzo. L’universo, vi si afferma, è nato dal caso. Ma poi è la necessità che ha fatto sì che gli atomi si attraessero e dessero vita a pianeti, satelliti, orbite, sistemi, e all’uomo stesso. Il cristiano, ammonisce Bianchi, non lo nega, ma riporta l’inizio di tutto a un atto di volontà e di amore, in cui era già presente il pensiero di ciascuno di noi. Infatti “più del padre, Dio mi ha voluto”. La consapevolezza della creazione divina troneggia a fronte della casualità dell’atto sessuale con cui si diviene padri.
Alex incalza: che significato ha la cella dei monaci? E il silenzio? Il fatto è, spiega fratello Enzo, che i monaci sono dei privilegiati, perché non abitano in angusti appartamenti con cucine piccolissime. In quei buchi non c’è neppure una stanza dove starsene da soli. La descrizione è assai efficace, e fa tornare alla mente Renato Pozzetto nel film Il ragazzo di campagna. Uno dei privilegi è non dover dividere il letto con un altro. E tuttavia Bianchi non enfatizza le meraviglie di tale privilegio, anzi ricorda a chi se lo fosse scordato che anche i monaci, nella vita laicale precedente, sono stati ragazzi, e che il celibato è sì una scelta consapevole, ma comporta di saper attraversare la solitudine. La solitudine è un allenamento necessario per essere preparati alla morte, ma anche per vivere la relazione. In Inghilterra è stato istituito il Ministero della solitudine che provvede a prevenire la depressione e altri inconvenienti di chi non è pronto a concludere la propria vita da solo. Nella cella i monaci stanno chiusi senza radio, televisione o cellulare dalle 20,30 alle 6 di mattina. Il tempo trascorre nella cura della persona, nella lettura e nella preghiera. Poi c’è la Messa insieme ai confratelli, e otto ore di lavoro. La regola è “prega, leggi e lavora”. Quanto al silenzio, è molto meglio della chiacchiera, ed ecco far capolino Heidegger con le modalità di vita inautentica: chiacchiera, innanzitutto. E di seguito Kierkegaard, con il fallimento della vita etica di chi sceglie lavoro, amici e matrimonio, che dopo un po’ degenerano in routine e noia. Allora da quel fallimento esplode la vita religiosa come paradosso e scandalo. Ma questo rinvio resta sullo sfondo.
Il discorso si incanala verso la fraternità, con il rischio del tradimento. E qui Enzo Bianchi ci stupisce con un aneddoto personale molto filosofico. Stupisce sentire che suo padre, da cui la gente del paese veniva “per farsi stagnare le pentole o aggiustare la macchina da verderame“, quando lui, ancora ragazzino, gli annunciò di volersi fare monaco, citò Voltaire. “Ricorda, figliolo, che Voltaire disse: i monaci sono quelli che vivono insieme senza conoscersi, vivono insieme senza amarsi, muoiono insieme senza rimpiangersi”.
Il peperoncino sferra il suo assalto finale: e la sessualità? L’ex priore di Bose si accalora in una palinodia del sesso, che non deve diventare il fine dell’uomo, ma comunque è stato creato e benedetto da Dio. È necessario educare alla sessualità. Giovanni Paolo II ha detto, ricordando i Padri della Chiesa, che quando fanno l’amore, gli amanti fanno la liturgia dei corpi. E non lasciamoci ingannare ancora una volta da false traduzioni: nel Cantico dei Cantici non si parla di sposo e sposa, ma di un ragazzo e una ragazza che fanno l’amore. Oggi, nel condannare la violenza e la sopraffazione travestite da amore, in un’epoca di “amore liquido” non dobbiamo giudicare le persone che esprimono la sessualità in forme differenti da quelle della maggioranza. Rispetto per tutti! Rispettiamoli! Questo è il cristianesimo.
E noi ce ne andiamo convinti che il cristianesimo deve aver paura solo degli indifferenti. Con l’ateo, archiviata l’Inquisizione, c’è più gusto a dialogare. Don Agostino Cantoni l’aveva capito: “le acque chete – scriveva vent’anni fa – non mi sono mai piaciute, preferisco le acque agitate, dove costa qualche sacrificio remare contro corrente”. Del resto l’espressione “cristiani indifferenti” è soltanto una figura retorica: un ossimoro.
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