25 gennaio 2025

Le memorie di Adriano e le nostre

I giochi erotici dietro al pollaio

Un viaggio alla ricerca della propria infanzia alla scoperta di ciò che il tempo ha rimosso. 

Un viaggio mosso dalla volontà di scoprire tutta la verità, anche la più amara.

È questa, in ultima analisi, almeno a mio avviso, la chiave di lettura del nuovo romanzo di Adriano Tango “La foresta della caldera” (Edizioni creativa, Milano 2024).

Un maestro di scrittura, il dott. Tango, uno scrittore che dimostra di possedere tutte le tecniche narrative per catturare il lettore: suspence, ritmo crescente, ripetuti annunci i cui contenuti vengono rinviati all’infinito. Un abile giocatore che sa scoprire nel momento giusto una carta del tutto inattesa.

Una prosa, la sua, godibilissima.

Felicissime alcune immagini: vedi il tempo che si raggomitola, la penombra che ingoia, le “colline prorompenti dalla scollatura a V”.

Avvincente la storia: una spedizione giornalistica nel bosco al fine di scoprire un mistero in un contesto di streghe, cinghiali, sabotaggi, appalti.

Funzionali, per nulla forzate, le sue conoscenze mediche e la sua passione per il mondo degli animali.

Nessun esplicito intento moralistico. I messaggi, però, non mancano e sono veicolati dai personaggi già nelle prime battute: cinghiali uccisi ad armi impari da cacciatori che così ostentano “la prova della loro virile e fiera natura di predatori notturni”.

Già, la violenza “inutile” contro la natura (sono i cinghiali i suoi anticorpi, che si schierano a sua difesa, che accorrono verso la ferita inferta per risanarla) e la violenza contro le donne, contro la stessa “freschezza e candore” delle minorenni ad opera di maschi privi di un pur minimo senso morale e di “un qualsiasi freno inibitore”, contando sull’impunità (vedi Giovanna, calpestata nella vita e scheggiata nell’anima).

Messaggi incarnati.

Ma questo è solo lo sfondo: il cuore pulsante è il viaggio nella memoria del protagonista, un viaggio “reale” e nello stesso tempo “interiore”.

Un viaggio alla ricerca dei giochi innocenti di bambini, con la sua prima maestra di sesso, dietro al pollaio, “a caccia di segrete complicità forse più che di embrionale erotismo”, del sesso degli adulti capace di condurre una donna “nel tunnel della disperazione”, addirittura di scatenare vendette che finiscono in tragedie.

Un viaggio che lo porta a una scoperta-shock: il padre ritenuto da sempre una “radice sana” che si rivela al contrario “marcia”.

Uno spaccato di umanità, con le sue gioie e le sue bassezze.

E uno spaccato di storia (al di là della finzione letteraria).

Un libro intrigante.

“Apprendere ad apprezzare di più i minuti e quindi l’eternità del presente”

Un libro che, magari, ci può stimolare a percorrere anche noi un analogo viaggio a ritroso alla ricerca di noi stessi, delle nostre origini, delle nostre radici, della nostra storia che tanto ci ha segnato fin dalla fanciullezza.

Un viaggio sincero, senza ipocrisia: non possiamo permetterci di ingannare noi stessi!

Un guardarci allo specchio, guardarci nell’anima, senza cadere nella tentazione di innamorarci della nostra immagine, ma anche senza macerarci per i nostri difetti.

Un fare i conti con la nostra vita, con le sue luci e le sue ombre, con le nostre potenzialità che forse per pigrizia o per inerzia abbiamo tenute sepolte.

Un viaggio alla scoperta del nostro “io”, della nostra “unicità” (che spesso rimane nascosta a noi stessi).

Un viaggio non per auto-incensarci o piangerci addosso, ma per riprenderci la nostra vita con un nuovo slancio e con una rinnovata voglia di “esserci”, per esprimere appieno tutti i nostri talenti, magari per  riaccendere una vita che si trascina stancamente.

E non solo: un ritorno alle nostre radici per lasciare ai figli e ai nipoti una nostra “memoria”: una storia corale, la storia delle tante storie di amore o di passione che ci hanno trasmesso la linfa della vita. 

La storia di persone in carne ed ossa, con le loro paure, apprensioni, speranze, drammi, ingiustizie subite… Una storia “vissuta” che non si studia sui libri di storia, magari ricostruita accedendo agli archivi (parrocchiali e comunali) e allo stesso Archivio di Stato per ottenere il foglio matricolare di un nostro parente stretto caduto in guerra o fatto prigioniero durante la guerra.

Una memoria che magari, se depositeremo una copia in un centro di ricerca storica, potrà arricchire la stessa “memoria collettiva” della nostra comunità.

“L’autobiografia – scrive Duccio Demetrio, co-fondatore della Libera Università dell’autobiografia di Anghiari – è la testimonianza che abbiamo vissuto e siamo apparsi su questo pianeta per un certo periodo,  unici tra miliardi di individui che ci hanno preceduti, ci sono contemporanei e ci seguiranno” e, nello stesso tempo, un’opportunità “per ricominciare a vivere con spirito nuovo […] e “apprendere ad apprezzare di più i minuti e quindi l’eternità del presente”.

Una testimonianza che, magari, potremo lasciare avvalendoci del supporto di quella bella realtà culturale che è l’Uni-Crema dove proprio in questi giorni viene aperto un “laboratorio di scrittura autobiografica”.

Tutti, anche senza una vena letteraria.

Tutti, anche solo schegge della nostra storia: un albero genealogico costituito da una documentazione fotografica e da didascalie, un racconto delle condizioni di vita che abbiamo vissuto (abissalmente diverse dalle attuali), la storia dolorosa di uragani che si sono abbattuti sulle nostre case e sulle nostre anime.

Tutti, con ogni mezzo che abbiamo a disposizione, anche grazie alle nuove tecnologie: scrittura, registrazioni  sonore, video-registrazioni…

Così Gabriella Caramore: “Prima che venga il momento in cui tutto si dimentica, ciascuno [la memoria] la deve tener cara, ripensarla, e soprattutto restituirla: custodita e arricchita”. E ancora: “La memoria del vecchio è un’eredità inestimabile per chi resta”.

 

Piero Carelli


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti