Natale, le tradizioni cremonesi e l'origine della festa. Il ceppo più grande sul fuoco. I gusci delle lumache usati come lumini
Natale è per eccellenza la festa della famiglia e pertanto, se si eccettuano le funzioni religiose, tutte le tradizioni legate al periodo si riferiscono prevalentemente all’ambito familiare. Solo con l’Epifania l’orizzonte si allarga fino a comprendere anche quell’aspetto pubblico, che diventerà prevalente con la Settimana Santa che precede la Pasqua. Sicuramente questo è legato anche alle particolari condizioni climatiche del periodo, mentre con la bella stagione la festa religiosa assumerà anche un risvolto “sociale”, investendo le strade e le piazze. Per questo motivo sono di ambito strettamente domestico anche le tradizioni che caratterizzano il periodo natalizio. Una, molto particolare, è riferita da Bruno Rossi in un articolo pubblicato sulla rivista “Cremona” del 1929: “A Cremona, la sera della Vigilia di Natale, si osservava una simpatica usanza, che tramandata di generazione in generazione, nei secoli scorsi, si spense un giorno quando il progresso iniziò la sua corsa precipitosa! Il buon padre cremonese soleva, in tal sera, benedire tutti i suoi figli con l’acqua santa, mentre la madre poneva sul fuoco il ceppo più grosso che si avesse, e i figli più giovani andavano alla porta, cantando orazioni in lode della SS. Natalità «per haver della fugaccia»”. Il “ceppo”, detto anche “capodono” o “cavedòon” , o anche “dei figlioli piccoli” per distinguerlo da quelli che sarebbero poi stati bruciati nel giorno di San Silvestro, chiamato “dei giovani”, dell’Epifania, o “degli sposi” e per Sant’Antonio, detto “dei vecchi”. Sempre legato al culto di Sant’Antonio, in alcune zone del cremonese la sera del 24 dicembre si procedeva alla benedizione degli animali, che normalmente veniva invece effettuata il 17 gennaio. La sera della Vigilia era di “magro” e di conseguenza non si usavano lampade ad olio, ma solo la luce delle candele, e si cucinava con olio e non come era solito con burro. Il piatto tradizionale erano le lumache i cui gusci venivano poi riutilizzati qualche mese dopo come “lumini” per addobbare porte e finestre durante la processione serale del Venerdì Santo.
Poi si mangiavano i maroni, o castagne cotte in una delle quali il padre aveva avuto prima cura di nascondere la ventura di solito una moneta. Toccava al più giovane scegliere per primo e, se la castagna scelta conteneva la moneta, il padre la prendeva per sé e la consegnava al mattino al primo povero che egli avesse incontrato per la strada; se invece la moneta non era nella castagna del povero, se ne distribuiva una ciascuno a turno a tutti i presenti e «a chi la toccava stava allegro»!”. Anche i classici cibi natalizi avevano un significato simbolico e teologico particolare. Ad esempio si mangiava l’anatra, prevalentemente selvatica, perchè questo volatile vive all’aria aperta e si ciba di erba verde, come il buon cristiano dovrebbe nutrirsi della sapienza divina. L’anatra, peraltro, aveva un forte significato simbolico anche presso l’ebraismo in quanto, come uccello migratore, era la personificazione del viaggio iniziatico, e con la sua migrazione, diventava simbolo della ricerca spirituale e della continua rinascita, e quindi dell’immortalità. Anche l’orecchio del maiale, uno dei cibi più umili, veniva caricato di significati che lo nobilitavano. “L’orecchio del volgarissimo maiale – racconta sempre Bruno Rossi – era un piatto preferito, appunto perchè sottile. E tale per cui il Cristiano ne potesse trarre un ammaestramento: di avere sempre cioè le orecchie pronte ad udire i precetti ed i comandamenti della Sacra Scrittura. I ceci erano di precetto, perchè neri e ricordanti, per questo, che Cristo sofferse la morte per la redenzione dell’umanità ed ammonenti che la morte sta dietro la schiena di ognuno e che può coglierlo ad ogni momento. Si mangiava poi il cappone, il quale, bello a vedersi, non dà alcun frutto ed è privo di ogni virtù. Il suo esempio non deve seguire il Cristiano, che deve invece imitare il gallo sempre vigile ed attivo!”.
Anche Cremona aveva il suo panettone, era il “pan speziato” (leggi l'articolo), comune a tutta Europa, ed il pane grosso di Natale. L’impasto del pane era elaborato con farina di segale, miele, anice, coriandolo, cannella, zenzero, e altre spezie a seconda di gusti e disponibilità. La sua lontana origine potrebbe essere indiana o persiana. Gli antichi Greci ne erano golosi: sappiamo che lo chiamavano “melitales”, ma è impossibile stabile quali spezie entrassero in questo impasto di cereali dolcificato con il miele. Secondo la leggenda, il pan di spezie si diffuse nell’Europa occidentale nel X sec. ad opera di san Gregorio, vescovo d’Armenia rifugiatosi in Francia, che era solito offrirlo a tutti coloro che gli facevano visita.
Sempre Rossi ci informa della tradizione del “ceppo”: “Bisognava che tutta la famiglia stesse unita attorno al ceppo della scorza rugosa, su cui i bambini battevano colle molli, cogli occhi bendati, recitando in coro: l’«Ave Maria del Ceppo»!. Oppure si faceva venire il bambino più piccolo della casa il quale si accostava all’albero e vi spargeva sopra, come una benedizione, un bicchiere di vino recitando o, s’egli era troppo piccolo vi era chi le recitava per lui, delle brevi orazioni! Si metteva quindi il ceppo sul fuoco e per tutto l’anno si conservava una parte del carbone rimasto, per farlo entrare nella composizione di certi rimedi superstiziosi, che guarivano da ogni male!”. Era solitamente la donna più anziana della casa che raccoglieva la cenere in una latta e la riponeva in attesa che, a maggio, venisse sparsa sui graticci dove venivan allevati i bachi da seta per garantirsi un proficuo raccolto.
Quella del ceppo di Natale è considerata una delle più antiche tradizioni, risalente almeno fino al XII secolo, quando se ne trova traccia per la prima volta in Germania nel 1184. L’usanza prevedeva che la vigilia di Natale il capofamiglia, con una particolare cerimonia di buon augurio (in genere un brindisi) bruciasse nel camino di casa un grosso tronco di legno, che poi veniva lasciato ardere anche nelle successive dodici notti fino all’E‐ pifania. I resti del ceppo venivano poi conservati, in quanto si attribuivano loro proprietà magiche, come favorire il raccolto, l’allevamento, la fertilità delle donne e degli animali e la salute e la protezione dai fulmini e spesso venivano riutilizzati per accendere il fuoco nell’anno successivo. Che si trattasse di una tradizione molto antica e diffusa è testimoniato dal fatto che in alcune lingue il termine con cui si indica il ceppo si ritrova nei termini per indicare il Natale, o la vigilia di Natale. In Lombardia l’uso è documentato da una descrizione che risale al 1440 in una lettera dell’umanista Francesco Fidelfo, nella quale è detto che nella Vigilia di Natalee si era radunata al castello di Milano gran parte della nobiltà ambrosiana e che, alla presenza dello stesso duca Filippo Maria Visconti, fu celebrata l’annuale cerimonia del “zocco” e che il giorno seguente agli intervenuti furono distribuiti vari doni. In tale occasione anche a Milano si preparava un grosso pane, alla preparazione del quale doveva assolutamente sovrintendere il padrone di casa, che prima della cottura vi incideva col coltello una croce in segno di benedizione.
Quella del ceppo è senza dubbio un’usanza di origine precristiana a cui gli studiosi hanno dato diverse interpretazioni.. Secondo alcuni il ceppo rappresenterebbe lo spirito della vegetazione e il suo bruciare la luce solare che garantirebbe calore per tutto l’anno a venire. Altri studiosi invece vedono nella tradizione riminiscenze dell’accensione annuale del focolare sacro, che rappresenta sia il centro della vita familiare sia la dimora degli spiriti degli antenati. Secondo l’interpretazione cristiana, il ceppo doveva invece simbolicamente servire per riscaldare il Bambin Gesù e il fuoco rappresenterebbe l’opera di redenzione di Cristo, sacrificatosi per salvare l’umanità.
Il ciclo natalizio, con le sue celebrazioni e le sue tradizioni, iniziava in realtà il 21dicembre, data in cui nel Cinquecento venivano sospesi tutti i processi in corso per dare modo agli imputati di celebrare degnamente il Natale. Il giorno della vigilia, che costituiva il centro del ciclo natalizio, secondo quanto racconta nel Seicento Giuseppe Bresciani, “dalli hospitali, collegi, e universalmente, viene quello giorno dispensato ai poveri grandissima quantità di pane, farina e denari; come si fa alla Pasqua, ad un’ora determinata, siccome fanno molte parochie, quali anch’esse dispensano chi pane,e vino, chi denari, e altre cose secondo li oblighi che ciascuna ch’essa tiene”.
Luciano Dacquati riferisce poi un’ultima usanza della sera della Vigilia, quando per far stare buoni i bambini si raccontava loro la storia della “Pezèra”, una sorta di strega che li avrebbe rapiti, analoga ad altre figure come la “Vecia Còorna” e il “Magu” che, però, erano in giro per tutto l’anno. Un’altra usanza era quella di lasciare la tavola imbandita, nella convinzione che i defunti sarebbero tornati per trascorrere le festività in famiglia.
Nel Natale si mescolano simboli e usanze di incerta origine, le cui radici si perdono nei secoli passati. La scelta dell’abete, ad esempio, non è casuale, nell’antico Egitto esso simboleggiava infatti la natività, mentre nell’antica Grecia l’abete bianco era sacro alla dea Artemide, dea della luna, della caccia e delle nascite; ed ancora, nel calendario celtico, l’abete era destinato a
Il culto del giorno della nascita del Fanciullo Divino. Secondo altre fonti però, l’usanza potrebbe anche derivare dal ciocco di Yule, (in inglese, termine arcaico per Natale) associato a una festa pagana nordica, che durava dodici giorni, il cui ramoscello veniva bruciato all’aperto; o ancora dall’albero del paradiso, presente nei drammi antichi su Adamo ed Eva. L’usanza di scambiarsi regali sembra derivare invece da un rito pagano romano, che prevedeva lo scambio di cibo, monete e preziose come portafortuna per il nuovo anno. Il personaggio che è poi divenuto famoso in tutto il mondo per consegnare i regali a Natale è Santa Claus, in Italia Babbo Natale, che deriva da San Nicola. Dice la leggenda, che San Nicola, vescovo di Myra del IV secolo d.C., avendo ereditato molti beni e denari dai suoi genitori, per liberarsene cominciò a fare regali a chi ne avesse più bisogno, trovando gioia nel semplice donare ai bisognosi. La festività del Natale non è inoltre documentata con certezza prima del IV secolo. La prima menzione certa della Natività di Cristo con la data del 25 dicembre risale infatti al 336, e la si riscontra nel Chronographus, redatto dal letterato romano Furio Dionisio Filocalo.
Tutto ciò conferma che le origini storiche del Natale, pur essendo ancora avvolte dalle nebbie del passato, certamente hanno origini precristiane. La data del 25 è, in realtà, puramente simbolica: non si conosce la data esatta della nascita di Gesù, i vangeli non ne fanno menzione. Con tutta probabilità la data venne fissata (nel 440 d.C.) al 25 dicembre per sostituire la festa del Natalis Solis Invicti con la celebrazione della nascita di Cristo, indicato nel Libro di Malachia come nuovo “sole di Giustizia” (cfr. Malachia III, 20). Secondo tale ipotesi, il Natale costituirebbe dunque il più eclatante caso di cristianizzazione della preesistente festa pagana. La data coincide infatti con le antiche celebrazioni per il solstizio d’inverno e alle feste dei saturnali romani (dal 17 al 23 dicembre). Inoltre, già nel calendario romano il termine Natalis veniva impiegato per molte festività, come il Natalis Romae (21 aprile), che commemorava la nascita dell’Urbe e il Dies Natalis Solis Invicti, la festa dedicata alla nascita del Sole (Mitra), introdotta a Roma da Eliogabalo (imperatore dal 218 al 222) e ufficializzato per la prima volta da Aureliano nel 274 d.C. con la data del 25 dicembre.
La festa pagana del solstizio d’inverno era una ricorrenza importante per molti popoli, tra cui certamente gli antichi romani, che in quel giorno celebravano la festa del dio Sole. Durante queste feste che andavano dal 17 al 21 di dicembre (“I Saturnali”) e la festa vera e propria del Sol Invictus del 25, si usavano i simboli dell’eterna giovinezza di Dioniso: mirto, lauro, edera... Il greco Dioniso veniva considerato come il divino bambino nato in maniera miracolosa da una vergine celeste. Dioniso era stato latinizzato col nome di Mithra di cui in oriente si celebrava la festa la sera del 24 dicembre. Era il dio iraniano dei misteri, il dio solare dell’amicizia e dell’ordine cosmico, nato dalla pietra e portatore della nuova luce “Genitor luminis”. Verosimile dunque, viste le numerose coincidenze riscontrabili, che la chiesa cristiana abbia scelto la data del 25 dicembre come giorno di nascita del Cristo semplicemente per cristianizzare una festa pagana molto sentita dalle masse popolari. L’imperatore Costantino (280‐337) avrebbe così riunito il culto del sole (di cui egli era il figlio protetto) e il culto del dio Mithra con il cristianesimo, ed è proprio sotto il suo regno che appare la festa del Natale. Da Roma il Natale si diffonde in Africa, in Spagna e nel Nord Italia, ma è solo sotto l’imperatore Giustiniano (527‐ 565 d.C.) che il Natale viene riconosciuto come festa legale per l’Occidente. A tale tradizione quindi la celebrazione del Natale ha voluto collegarsi per indicare l’avvento della Luce del Mondo, che giunge a squarciare le Tenebre. È il Bambino, che venendo al mondo, inaugura una nuova vita, e porta la Luce a tutti gli uomini
La foto di Ernesto Fazioli, la prima messa
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