Qui successe un 48. Il 19 marzo 1848, 175 anni fa, anche a Cremona scoppiò la rivolta contro gli austriaci che ridisegnò le sorti dell'Italia e dell'Europa
Ancora oggi si dice «è successo un quarantotto» per indicare una situazione di caos improvviso, di tumulto generale, di putiferio inaspettato. furono infatti gli eventi rivoluzionari che si intrecciarono proprio nel 1848 a cristallizzarsi nell’immagine menzionata, fino a diventare l’archetipo anche verbale di un evento confusionario ma nello stesso tempo decisivo. Centosettantacinque anni fa si facevano i destini d'Europa, soprattutto d'Italia. Cambiavano i confini politici, si preparavano a nascere nazioni nuove. E la scintilla era scoppiata proprio la mattina di quel 1° gennaio del 1848 con un semplice atto di ribellione, apparentemente inoffensivo, ma destinato a ripercuotersi e ad allargarsi a macchia d'olio. Un gruppo di patrioti che si erano riuniti al Caffé Duomo, a Milano, stilava una circolare che incitava i veri italiani ad astenersi dal fumo: un modo non violento per danneggiare in qualche modo il fisco austriaco privandolo dei proventi che venivano dalla vendita dai tabacchi. Due giorni dopo soldati e provocatori austriaci si misero ostentatamente a fumare cercando di obbligare i cittadini a fare altrettanto. Scattò la prima molla. Alla reazione del popolo intervenne la cavalleria austriaca e ci furono 6 morti e 50 feriti. La rivoluzione dilagava ovunque, non solo contro il dominatore straniero: a Livorno il 6 gennaio il Governatore della città inviato dal Granduca di Toscana che avrebbe concesso la Costituzione il mese successivo, era costretto alla fuga. Palermo si sollevava il 12 gennaio e così Napoli tre giorni dopo contro Ferdinando II. Il 18 toccava a Venezia ove venivano arrestati Daniele Manin e Nicolò Tomaseo. Sollevazioni di popolo si registravano anche a Torino, a Parigi, Budapest e Vienna e anche a Roma Pio IX incontrava le prime opposizioni. Cremona? Non era più la grande città ricca e prosperosa di un tempo. Le dominazioni spagnola e francese, poi quella austriaca l'avevano ridotta ad un agglomerato di poco più di 26.000 abitanti "nazionali" e 2367 militari stranieri, un rapporto assolutamente sproporzionato quando si consideri che dal computo erano escluse le truppe di transito sempre numerose a causa delle esercitazioni che si tenevano lungo il Po e della vicinissima zona di confine. L'antica capitale del Po era ridotta ad una enorme Piazza d'Armi: molte zone erano occupate da caserme e insediamenti militari. Il costante passaggio di militari austriaci rendeva necessario il continuo sopraluogo del Comune nelle case private (poco più di 60 erano le casate nobili sopravvissute delle oltre 500 blasonate che vi si contavano durante il Rinascimento). Perquisizioni e requisizioni di appartamenti da riservarsi agli ufficiali di passaggio (si dovevano fornire "le necessarie mobilie, letti, biancherie, scuderie ed altro a coprirne la fornitura") rendevano la convivenza piuttosto fredda: la non-collaborazione era la norma professata dai cremonesi, ma i continui e assidui controlli rendevano la vita estremamente difficile ai pur numerosi patrioti e quando i primi moti si evidenziarono nelle maggiori città italiane, specie contro l'Austria, Cremona non fu certamente in prima fila e cosi apertamente come era stato invece per i grossi centri, Milano e Venezia su tutti.
Cremona aveva cessato di essere quella potenza economica che si era rivelata in età rinascimentale, già da qualche decennio quando era caduta in mano austriaca. Quella posizione geografica che ne aveva fatto fin dai giorni della sua fondazione il centro propulsore dei commerci con mezza Europa, la trasformò ben presto in una testa di ponte militare con tutte le deleterie conseguenze che ne potevano derivare. Cosi, quando scoppiarono i primi moti rivoluzionari, nel '48, la città era praticamente ridotta ad un grosso centro militare. I suoi molti conventi (se ne contavano una sessantina) erano stati trasformati in caserme e depositi di armi, le chiese in ospedali ed infermerie. Si calcolava che per ogni 18 abitanti di sesso maschile vi stanziassero 10 militari. E questi provenivano da ogni regione dell'immenso impero: dalmati e ungheresi, croati e boemi, cechi e tedeschi si alternavano in un quadro indescrivibile di convogli militari che si alternavano in esercitazioni e operazioni di guerra. La vicinanza con il Ducato di Parma e Piacenza, e più ancora con il Piemonte, che faceva sentire la sue netta ostilità, avevano fatto sì che il Comando Militare austriaco scegliesse sempre come base logistica per ogni trasferimento di truppe proprio Cremona, non solo per la buona condizione delle strade tra l'altro ben collegate con le vie d'acqua, ma soprattutto per la grossa produzione di cavalli (circa 10.000 l'anno) che consentiva il suo territorio. Le perquisizioni di ogni genere operate dai militari per il proprio sostentamento avevano depauperato il suo patrimonio in modo inequivocabile. Inutile descrivere in quale stato di miseria versasse la popolazione: si erano susseguite carestie e pestilenze e molte famiglie non potevano godere dell'apporto di molti uomini esuli in altri stati, rinchiusi nelle prigioni austriache o arruolati nell'esercito di occupazione.
La soppressione delle comunità religiose, la confisca dei conventi e dei beni della Chiesa operata dalla riforma di Francesco II impedivano il concretizzarsi di quella solidarietà verso i poveri che erano stata una delle caratteristiche di quelle istituzioni e fu allora che si registrò una encomiabile reazione alla tirannia straniera con una manifestazione di solidarietà che, coinvolgendo il Municipio e le poche organizzazioni religiose rimaste, riusciva ad assistere persino 3500 persone indigenti ogni giorno. Il malessere in città aveva già indotto molti giovani a disertare l'arruolamento nell'esercito austriaco e a rifugiarsi all'estero sicché, quando Carlo Alberto fece per la prima volta il suo ingresso in Cremona, parecchi ufficiali e militari dell'esercito piemontese erano disertori già passati in Piemonte e ad essi altri se ne aggiunsero durante le operazioni del '48, tanto da costituire un apprezzato nucleo combattente nella campagna del '49. Alcuni ufficiali disertori avevano addirittura frequentato, come Giacomo Pagliari che sarebbe poi divenuto l'eroe di Porta Pia un ventennio più tardi, la celebre Accademia Militare di Wiener Neustadt, ma paradossalmente, proprio nella culla del militarismo austriaco, avevano maturato quell'amor di patria che li avrebbe ben presto portati alla diserzione.
Il momento più significativo del Risorgimento cremonese fu senza dubbio l'ammutinamento del "Ceccopieri". Il 3° Battaglione del reggimento Ceccopieri, di stanza a Cremona e composto unicamente di militari lombardi, era stato costituito il 22 settembre del '47 con una solenne cerimonia svoltasi in Piazza Castello. Al reggimento venne assegnata come caserma l'antico convento di San Domenico ed esattamente sei mesi più tardi, mentre giungevano in città le prime notizie della sommossa milanese e le strade erano percorse dai primi festanti che sventolavano il tricolore, avvenne lo storico episodio.
Le truppe erano consegnate in caserma, ma alcuni patrioti (tra essi si distinse un certo Antonio Binda) riuscirono a penetrare in esse convincendo i militari all'ammutinamento nonostante gli ordini precisi del maggiore Zaghen, un fanatico traditore soncinese che preferiva farsi passare per austriaco e teneva il comando della Piazza. I militari del "Ceccopieri" aprirono le porte della caserma alla popolazione e si riversarono in città dopo essersi strappate dalle divise le mostrine austriache. Poco dopo nella caserma di San Domenico, dove alloggiavano reparti di soldati giuliani ed ungheresi, il capitano Francesco Scoctnitz si ribellava con altri ufficiali all' I.R. Comando facendo precipitare la situazione a favore dei rivoltosi. Si provvedeva comunque alla firma di una specie di armistizio tra il Governo Provvisorio che si era appena costituito, ed il generale Schönhals, ma che venne interrotto dall'arresto ello Zaghen. I soldati del Ceccopieri presero a presidiare la città e a distribuire munizioni ai rivoltosi. Il 7 aprile successivo, quando il Governo Provvisorio stabili di trasferire le truppe di linea a Milano, i 4000 uomini del Ceccopieri sfilarono per le vie della Capitale lombarda applaudite da Giuseppe Mazzini che volle tesserne pubblicamente l'elogio.
Il 18 marzo i milanesi salirono sulle barricate e vissero i cinque giorni più famosi della loro storia: il feldmaresciallo Conte Radetzky, che già aveva intuito i prodromi della ribellione qualche mese prima, era costretto ad evacuare la città con tutte le sue truppe e la vittoria si ripercuote a Venezia, dove il comandante dell'Arsenale Conte Von Marinovich veniva linciato a bastonate e a Roma veniva strappato lo stemma dell'Ambasciata austriaca. A Torino tuonava Camillo Benso di Cavour: "L'ora suprema per la monarchia sarda è suonata". Da tutta Italia arrivavano truppe verso il Nord, volontari soprattutto, ma il cattivo sistema di coordinamento, mentre il grosso dei piemontesi si ammassava intorno a Brescia, permetteva a Radetzky di ritirarsi tranquillamente entro il Quadrilatero (le fortezze di Verona, Peschiera, Mantova e Legnago). Cremona si mosse già il 19, quando giunse notizia dei primi moti milanesi. Si riunì la Congregazione Comunale e apparve chiaro che di essa facevano parte molti patrioti sino ad allora attivi nell'ombra. Il giorno seguente, 20 marzo, costituirono il primo Governo provvisorio e vari comitati (di Guerra, di Sicurezza pubblica, di Sanità ed Annona, di Finanza). La prima azione fu la convenzione della resa del comando austriaco e della partenza delle truppe polacche, quindi il reclutamento di volontari e la riorganizzazione dei battaglioni che si erano ammutinati e l'apprestamento di opere difensive. Il Governo provvisorio rimase in vita sino al 16 aprile e, secondo i deliberata del Governo centrale Provvisorio appena costituito in Milano, i poteri passarono alla Congregazione Provinciale. Domenica 2 aprile, frattanto, Re Carlo Alberto era entrato in Cremona giungendovi da Crema acclamatissimo dalla folla e alla testa di un esercito di 10.000 uomini: alloggiò in Palazzo Pallavicino e a sera la città che aveva tolto le barricate per far passare l'esercito piemontese fu illuminata a giorno e il re si incontrò con i membri del Governo provvisorio, che li invitò ad aver fiducia nell'esito della guerra pur non nascondendosi le difficoltà cui andava incontro.
Il 25 luglio 1848 in una torrida giornata d'estate, compariva in Palazzo Municipale il nuovo stemma di Cremona: portava il braccio di Giovanni Baldesio sulla sinistra con impresso l'anno: 1095 e a destra il tricolore con la data del 19 marzo 1848 sormontati dalla croce del Piemonte. Ma fu una giornata infausta perché in quello stesso pomeriggio l'esercito piemontese subiva l'imprevista disfatta di Custoza. I battaglioni formati dalle reclute lombarde che i piemontesi avevano schierato a difesa delle sponde del Mincio, a poca distanza dal teatro della furiosa battaglia, furono colte dal panico per la vicinanza delle truppe austriache che avanzavano inesorabilmente verso la pianura dai colli del Garda: si riversarono immediatamente in territorio cremonese intasando le strade e creando confusione e disordini. Il generale Battaillard tentò di radunare i fuggiaschi in collaborazione con il Comando di Guerra di Cremona, ma tutto fu inutile. A Cremona, donde era partito baldanzoso l'esercito piemontese per varcare il vicino confine dell'Oglio, iniziava la triste teoria delle disavventure di Re Carlo Alberto che il 28 rientrava in territorio cremonese dopo aver costituito il proprio quartier generale a Canneto. Qui, con due successivi proclami, aveva reso note al popolo italiano le dure condizioni imposte dall'Austria per la cessazione del conflitto e incitato i popoli dell'Alta Italia a riprendere la lotta armata insieme alle sue truppe. Cremona reagi con la raccolta di cibarie per i soldati affamati attestati sul fronte dell'Oglio in attesa del potente esercito di Radetzky che recuperava le proprie posizioni, iniziò un Triduo ai Santi Patroni in Cattedrale. Ci si preparò alla difesa della città che Carlo Alberto aveva raccomandato di tenere sino allo stremo. Ma le truppe incontravano difficoltà a schierarsi: le strade erano occupate da migliaia di fuggiaschi, prigionieri austriaci, sbandati e feriti, truppe di artiglieria coi loro carri pesanti. La strada rimase a lungo bloccata e lo stesso Carlo Alberto fu costretto a fermarsi in acquartieramento in una piccola cascina a Ca dell'Ora vicino a Gadesco.
Re Carlo Alberto entrò in Cremona il 30 luglio. Erano le cinque del mattino. Aveva con se l'intero Stato Maggiore dell'esercito col quale si sistemò in Palazzo Pallavicino. Le truppe era ancora impegnate a contenere l'avanzata nemica dislocate su un fronte di una trentina di chilometri tra Cingia de' Botti ed Acquanegra sul Chiese. I combattimenti più accaniti si registrarono proprio a Cingia, a Gazzo e a Gadesco dove le cannonate piemontesi riuscirono temporaneamente a fermare il nemico, consentendo una più agevole ritirata alla fanteria ormai pressata molto da vicino. Il rombo delle cannonate e il crepitìo delle fucilate si facevano sentire anche in città, seminando il panico nella popolazione. Carlo Alberto tornò allora sui suoi passi, sul luogo delle operazioni, mentre Radetzky da parte sua dirigeva le operazioni da Vescovato. Carlo Alberto, giunto a San Felice, si rese conto delle enormi difficoltà delle sue truppe, ormai sbandate, senza viveri, con scarse munizioni e senza neppure l'appoggio della popolazione ormai sfiduciata, a contenere il nemico. Il generale Biava suggerì di ritrarre la linea difensiva sull'Adda. Ciò significava abbandonare anche la difesa di Cremona ed il re dovette adeguarsi all'idea di rientrare in città.
Dalle porte seguì personalmente le operazioni della ritirata verso Pizzighettone e Codogno: si sarebbe tentata l'estrema difesa di Milano come ultimo atto. Si recò comunque in Cattedrale per assistere alla cerimonia di chiusura del Triduo ai Santi Patroni. Quando si allontanò dal capitolo espresse la certezza che un giorno si sarebbe celebrato un "Te Deum per la vittoria italiana". Carlo Alberto lasciò Cremona alle tre del mattino del 31 luglio quando sopra il Torrazzo sventolava ancora tristemente il tricolore, puntando verso Pizzighettone mentre dalla città sfollavano ormai anche gli ultimi patrioti che si dirigevano verso il confine del Ticino sperando di trovare ospitalità in Piemonte. Lo stesso Podestà Araldi Erizzo preferi allontanarsi piuttosto che essere costretto a falsi comportamenti nei confronti della cittadinanza.
Due ore più tardi, al sorgere del Sole, le avanguardie dell'esercito austriaco entravano in Cremona. Toccò al Vicario Capitolare Mons. Dragoni, unica autorità rimasta in città, il compito di ossequiare l'Alto Comando Austriaco. Incontrò Radetzky a Ca' de' Stefani con la solita formula affermando che "Cremona fu sempre affezionata all'Augusta Casa d'Austria". Poche ore dopo era la volta del feldmaresciallo ad entrare in Cremona alla testa del suo esercito possente in un tripudio da bande militari. Quel mattino stesso il tricolore venne ammainato dal Torrazzo insieme allo stemma che da qualche giorno soltanto campeggiava sulla facciata del Municipio e soprattutto ricompariva in città una delle figure più detestate da patrioti e cospiratori, quell 'Imperial Regio Delegato Provinciale che era rappresentato dal Villani.
Milano, intanto, era pronta a riprendere le armi e attendeva l'arrivo delle forze piemontesi in ritirata per unirsi a loro ed organizzare una difesa ad oltranza contro gli austriaci che attaccarono infatti la mattina del 4 agosto. L'esercito piemontese riuscì a resistere e Radetzky ordinò il cessate il fuoco riprendendo la battaglia solo nel pomeriggio, ma alle otto di sera tutto era finito. Carlo Alberto riuniva il Consiglio di guerra in Palazzo Greppi e proclamava inutile ogni ulteriore resistenza preparandosi a rientrare immediatamente nei suoi confini. Le speranze di libertà erano ormai ridotte al lumicino. Si sarebbe dovuto attendere il '59 per un nuovo attacco.
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