54 anni fa moriva Robert Kennedy. E gli archivi tacciono ancora
La sera del 5 giugno 1968 moriva Robert Fitzgerald Kennedy, detto RFK in omaggio all’abbreviazione con cui veniva chiamato il ben più celebre fratello e 35° Presidente degli USA, JFK: venne freddato dal revolver dell’attivista giordano-palestinese Sirhan Sirhan all’hotel Ambassador di Los Angeles dove si stava festeggiando la vittoria alle Primarie della California, passo decisivo verso la nomination democratica che lo avrebbe visto gareggiare con Richard Milhouse Nixon alla Presidenza come accaduto al fratello 8 anni prima. Sirhan dichiarò lapidario: “in un momento solo mi è riuscito ciò che ha Robert Kennedy ha richiesto tutta la vita”, e cioè passare alla storia. Non sono mancate e non mancano tutt’ora perplessità, sospetti, ombre e teorie complottistiche circa l’attentato, esattamente come per il fratello John, ucciso a Dallas nel 1963. E come sempre avviene in questi casi, più si cerca la verità e meno la si trova, non diversamente da quanto è accaduto in Italia per i tanti misteri nostrani non risolti. Ma ci torneremo tra poco.
La saga dei Kennedy ha avuto un impatto incredibile su tutta la comunità mondiale del ‘900: migliaia di articoli, pubblicazioni, libri, fiction, serie televisive e films: una enorme famiglia dalla ricchezza smisurata, dotata di fascino e bellezza, invischiata col sesso e col potere, falcidiata da intrighi e sanguinosi incidenti, e che arriva al vertice della nazione più potente del mondo, insomma tutto ciò che trasforma in leggenda una storia famigliare. Angelo Rizzoli diceva che i soldi bisogna farseli perdonare, alludendo al clichè che vede le grandi ricche famiglie colpite da drammi e lutti senza fine. E i Kennedy in questo senso hanno loro malgrado fatto storia fino addirittura alla sintassi: in America, quando si vuole dire che una cosa è ovvia, si usa spesso l’espressione “does Rose Kennedy has a black dress?” ( e Rose Kennedy porta un vestito nero, ndr) ad indicare la matriarca della dinastia perennemente in lutto per la impressionante sequela di morti: quattro figli, un marito, un consuocero, quattro nipoti, una nuora e due pronipoti, tutti assassinati, morti in strani incidenti o suicidatisi.
Le loro splendide ville bianche di legno sul mare di New Port, i loro pantaloni cachi con i mocassini in cuoio e le calze bianche con gli wayfarers in tartaruga agli occhi sono diventati l’emblema del “bramini di Boston”, i rampolli dei ricchissimi della East Coast che hanno dato vita ad un vero e proprio stile di vita e di abbigliamento: il “preppy style” e la “posh life”. Le vite dei Kennedy si sono intrecciate con tutte le figure leggendarie del dopo guerra: da Frank Sinatra a Marilyn Monroe e Aristotele Onassis, da Nikita Kruscev a J. Edgar Hoover e Nixon, da e Fidel Castro fino a Martin Luther King. Un incredibile, perfetto affresco da pastorale americana che sembra uscito dalla migliore produzione di Hollywood: la loro Casa Bianca venne chiamata la nuova Camelot, eppure l’orripilante assassinio in diretta TV di JFK diede il via al periodo più violento e terribile della storia americana, fatto di continui attentati e omicidi a figure di spicco che fanno impallidire i nostri anni di piombo.
Sono stati l’emblema del sogno americano fino alla idolatria e spesso alla bugia bella e buona, ma tale era stata la loro capacità di far sognare e di incarnare nuovi ideali oltre al loro assoluto carisma comunicativo, che per generazioni, a destra e a sinistra, i Kennedy sono stati un simbolo e una ispirazione indiscutibili, fino al punto di ignorarne le tantissime ombre: dalla sessuomania del Presidente agli impicci paterni con la Mafia e i Nazisti, dalle brutalità inquisitorie di RFK da Procuratore Generale fino ai brogli elettorali del 1963. Ma la Storia, si sa, la scrivono i vincitori, e la narrazione prende sempre il sopravvento sui fatti nel sentire comune: i popoli hanno bisogno di sognare invece che di essere sempre sbattuti davanti alla cruda realtà del tempo che vivono. Fior di direttori di giornali italiani ci propinano ancora il sogno kennediano, mentre grandi scrittori americani come James Ellroy si sono dedicati con voluttà quasi porcina a narrare le pagine più nere del kennedismo tra sesso corruzione e prevaricazioni. Sta di fatto che ancora oggi sugli assassini di JFK ed RFK non si diramano le tenebre: la versione ufficiale rimane quella di due colpevoli, Lee Harvey Osvald per John e Sirhan Sirhan per Robert, ma non si smette di elucubrare sul coinvolgimento di ogni centro di potere immaginabile, dalla CIA all’FBI, dall’Esercito alla Mafia, dai comunisti fino ai repubblicani di destra del Texas o al Ku Klux Klan. E purtroppo, le vicende archivistiche legate ai due fratelli non aiutano certo a far tacere i sospetti…
Perdonatemi la deformazione professionale, ma ciò che dipana le nebbie delle narrazioni, sia di quelle denigratorie che di quelle agiografiche, sono i fatti, e soprattutto quelli documentati: in una parola, gli archivi. E quelli dei Kennedy continuano ad alimentarne la leggenda: la documentazione sull’assassinio di JFK doveva essere resa liberamente consultabile nel 2017 secondo il John F. Kennedy Assassination Records Collection Act, legge del 1992. Ma ciò non è avvenuto. Il responsabile degli archivi nazionali americani ha accampato numerose giustificazioni, tra cui quella del Covid che "ha avuto un impatto significativo sulle agenzie responsabili della revisione dei documenti”, aggiungendo che per prendere queste decisioni non si può avere fretta, e che "è necessario proteggere la difesa militare, le operazioni di intelligence, le forze dell'ordine e le relazioni esterne” degli USA. Lo scorso ottobre il Presidente Joe Biden ha di nuovo rimandato la dissecretazione della documentazione restante, almeno di un 10% , che ora dovrebbero essere resi pubblici entro il 2022, ma che quasi certamente verrà ulteriormente rimandata. Viene spontaneo domandarsi per quali ragioni ancora oggi, a distanza ormai di quasi 60 anni, si rimandino i chiarimenti definitivi su queste due pagine terribili della storia americana a dispetto di un decreto legge ad essi dedicato.
Forse, come diceva il Cardinale Marchetti Selvaggiani, “a mal pensare del prossimo si compie un peccato ma a volte si indovina”, o forse in quegli archivi non è poi custodito nulla di più di quanto già si è ipotizzato…
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti