A Natale riscopriamo la nostra fragilità
“Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”.
Il Bambinello, nel presepe, pur esprimendo tenerezza e dolcezza, ha il volto potente della fragilità, della vulnerabilità.
Dio ha scelto di incontrare l’uomo così! Avrebbe potuto manifestarsi già adulto, magari scendendo dal Cielo in una nube luminosa, tra tuoni e lampi, incutendo timore e soggezione, invece, sceglie di entrare nella storia come tutti: da bambino. E i bambini sono deboli, inermi, indifesi, hanno bisogno che qualcuno se ne prenda continuamente cura.
Se Dio non si è vergognato di farsi vedere così, perché dovremmo vergognarci anche noi della nostra debolezza? Questo è un tempo in cui tutti ci siamo accorti di essere fragili, di essere esposti al male, ci siamo resi conto del peso e della drammaticità della morte. Forse potremmo ripartire da qui, da questa più profonda consapevolezza della nostra vulnerabilità.
Se ci pensiamo bene che cosa ci allontana di più da Dio? Chi ci frena nell’abbandonarci all’abbraccio di Colui che ci ha creato, che ci ama e ci cura in ogni istante se non il nostro orgoglio, la nostra presunzione di bastare a noi stessi, quella superficialità che è tipica del nostro vivere quotidiano e che ci stordisce impedendoci di aprirci al mistero?
Canta il salmo 48: “L’uomo nella prosperità non intende è come gli animali che periscono”: nella buona sorta, nella prosperità, nella ricchezza si insinua sempre la tentazione di credersi invincibili, immortali, di poter sconfiggere tutto e tutti, di essere i padroni assoluti del proprio destino, grazie anche ad una scienza e ad una tecnica troppo tronfie di sé stesse. Scienza e tecnica potranno anche permetterci di conquistare l’universo sconosciuto o di compiere operazioni chirurgiche straordinarie, ma non potranno mai rispondere alle inquietudini che albergano nel cuore o colmare quella sete di amore che tutti noi proviamo disperatamente. Scienza e tecnica non potranno mai trasformare questo mondo in un paradiso terrestre! Che cosa strana: siamo quasi pronti per conquistare Marte eppure sulla Terra c’è ancora chi non ha un tozzo di pane e un po’ d’acqua per vivere.
Serve qualcosa d’altro…
Guardiamo all’inerme e delicato bambino di Betlemme con tenerezza e compassione, contemplando nelle sue le nostre fragilità. Non vergogniamo di essere vulnerabili, non arrossiamo se non siamo capaci di amare, se tante volte il rancore prende il sopravvento sulla misericordia, se la nostra lingua è veloce e tagliente, se l’apparire è più affascinante dell’essere, se riduciamo l’altro a una cosa da usare e poi buttare, se siamo scontenti di noi stessi, incapaci di capirci e di comprenderci, se il nostro passato ci fa orrore.
Non vergogniamoci! Scoprire di essere fragili e vulnerabili è l’unica strada per abbassare le nostre difese, i nostri muri e i nostri pregiudizi. È l’unico modo per imparare l’umiltà, per svuotarci dalle nostre certezze e dalle nostre paure così da farci riempire dal suo amore e della sua grazia. È l’unica strada per imparare ad avere bisogno di Dio. L’unico che conosce i segreti reconditi della nostra coscienza, l’unico che può ritemprarci con la sua carezza, l’unico che può riscattarci con il suo perdono. L’unico che può insegnarci a vivere in pienezza la nostra umanità.
“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”. Ci è affidato un compito straordinario curare e proteggere Dio che si fa bambino, inerme, invisibile.
Io credo che la migliore cura alle nostre fragilità sia quella di imparare a chinarsi sulle fragilità degli altri. Uscire da sé stessi preoccupandosi un poco degli altri aiuta certamente a relativizzare la propria sofferenza e permette di trovare delle risorse nascoste e insperate. Siamo fatti per amare e l’amore è l’unico orizzonte che ci fa sperare. Che vi fa vivere!
Buon Natale!
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti