Accoglienza, valore morale ma serve una legge
Da noi, a parte la disponibilità politicamente trasversale e ovviamente doverosa ad accogliere le famiglie afghane che hanno collaborato coi nostri operatori, il confronto fra i partiti è vivace e le posizioni assai diversificate. Ma, per il momento, il tutto non pare andare oltre i limiti culturali e programmatici di un approccio d’emergenza che tampona la contingenza ma si tiene alla larga dalla radice della questione.
Ed eccoci al punto: la radice del ricorrente problema è anche, infatti, di natura giuridico costituzionale. E rimanda, in particolare, a quell’articolo.10 della Costituzione che adegua il nostro trattamento degli stranieri a quanto sancito dal diritto internazionale. Ma come dimenticare, in proposito, lo specifico momento storico in cui la nostra Carta costituzionale fu pensata e scritta? Era il 1947 e l’Italia, dopo la tragica esperienza della guerra e quella del ventennio illiberale, sanciva anche col linguaggio del diritto la sua rinascita e il conseguente ritorno nella costellazione del mondo libero. Cioè in un Occidente stabilmente strutturato in forma di governi liberaldemocratici la cui superiorità morale rispetto ai modelli autoritari si esprimeva anche nella formale disponibilità ad accogliere chi bussava alla loro porta fuggendo da condizioni illiberali. La siderale distanza fra l’originario contesto storico dell’art.10 e la situazione attuale è di tutta evidenza. Nel ’47 il problema dei profughi era numericamente pressoché irrilevante. Oggi popoli interi, il Sud del mondo e non solo, sono in marcia verso orizzonti di sopravvivenza e sicurezza.
Fermo restando l’incontestabile valore morale di un generico principio di accoglienza, il problema va dunque spostato sul piano, decisivo, del realismo e riconiugato all’etica della responsabilità di chi decide in materia. L’incontrollata immissione di etnie della più remota provenienza e storia porta inevitabilmente con sé, innestandole nel nostro tessuto sociale, le tensioni, le criticità e i drammi che sono all’origine della loro fuga. Solo l’irriflessivo pressapochismo di gestori politici e amministratori allo sbaraglio può illudersi di guidare processi del genere con speranza di successo e di neutralizzarne nel medio-lungo periodo i risvolti destabilizzanti e conflittuali prima che sovrastino le nostre capacità di controllo. Tradotto: oltre un certo limite quantitativo e qualitativo non si possono difendere i diritti umani degli ospitati senza andare a ledere gravemente quelli del popolo ospitante e senza mettere a rischio proprio quei principi politico istituzionali di libertà e democrazia che ci spingono a comportamenti particolarmente accoglienti e liberali. Il principio liberale è, astrattamente parlando, fortissimo come tutti i grandi ideali. Ma realisticamente parlando è fragile al punto che, se pretende di strafare e spingersi per astratta coerenza fino alle estreme conseguenze, si autodistrugge generando il caos sociale o la svolta autoritaria. La contraddizione in agguato sta lì e conta nella casistica storica inquietanti precedenti.
Decisamente più sensato sarebbe metter mano all’invecchiata attrezzatura giuridico normativa che fa da quadro di riferimento alle politiche sull’immigrazione. Perché non si fa? Fra le tante risposte, legittime nelle rispettive verità di parte, una su tutte svetta e s’impone: l’Occidente, a differenza di Russia e Cina, è in preda a una spaventosa crisi di leadership politica. Benché generoso di retoriche autopromozionali, non ha le idee chiare su niente, men che meno sulle premesse di un nuovo ordine internazionale. Dunque Paesi come l’Italia ansimeranno ancora a lungo sotto il peso dell’accoglienza in un quadro internazionale in cui, non sapendo che pesci pigliare, si risponde al problema della difesa dei diritti umani portandosi in casa chi non ne gode. L’immigrazione diventa, in altre parole, il luogo cumulativo in cui plasticamente e tragicamente si assommano le nostre impotenze e i nostri fallimenti.
Mi brucia ammetterlo ma la verità più incontestabile degli ultimi giorni è il cinico contropelo con cui l’autocrate Putin ci ha sferzati dopo la caduta di Kabul: cari occidentali, ancora una volta siete andati a sbattere contro le conseguenze del vecchio vizio di esportare e imporre la democrazia a popoli che hanno ‘le loro tradizioni’. E inevitabilmente ci sovvengono i salotti progressisti che qualche decennio fa prefiguravano la globalizzazione come il trionfo del bene sul male e della pace perpetua sulla guerra. Una commistione fra mistica profetico-religiosa e basso utilitarismo mercantile di cui stiamo scontando i problematici esiti. Idem per l’entusiastica lettura occidentale delle primavere arabe e l’isterico infierire su Gheddafi durante la mattanza libica che ha consegnato un pezzo d’Africa al caos. Cari amici progressisti e illuminati, vincitori dello zecchino d’oro della bontà che la sottoscritta non vincerà mai, sommessamente vi ricordo che sbagliare è umano. Ma perseverare è diabolico.
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commenti
Sonia
29 agosto 2021 08:46
Analisi perfetta ma purtroppo solitaria ahimè!!!