Alain Delon, in morte di un semi-dio
Nel film Donnie Brasko c'è una scena in cui i gangsters radunati a bordo piscina leggono la notizia della morte di John Wayne e uno di loro commenta sbigottito “Ma come fa a morire John Wayne???”
Ecco, è la stessa sensazione che ho provato alla notizia della scomparsa di Alain Delon. Sarà perché il cinema ha la straordinaria capacità di rendere se non immortali almeno eternamente contemporanei i grandi attori, che rivediamo decine di volte in film più o meno vecchi e ci paiono sempre in forma perfetta.
Oppure sarà perché ci sono i grandi attori, ci sono i Divi, ci sono i Miti e in cima a tutto ci sono le Divinità, che si contano veramente sulle dita di una mano. Alain Delon era un semi-dio, una categoria pressoché unica cui è difficilissimo far appartenere qualcun'altra star del cinema.
Innanzitutto Delon è stato certamente l'uomo più bello del mondo per più di una generazione: diventa famoso già a 20 anni ed è più bello di James Dean. Una bellezza raggelante nella sua perfezione sovrumana, propria più del semi-dio che del divo del cinema che lo impone immediatamente come idolo.
E infatti viene scelto dal più grande degli esteti del cinema per ruoli drammatici e sofisticatissimi: Luchino Visconti lo vorrà in Rocco e i suoi fratelli prima e nel Gattopardo poi.
Ma Delon non è uno smidollato bellone da viziare, e nemmeno uno splendido oggetto da rimettere sotto vetro dopo averlo esposta nelle occasioni speciali.
Delon è quello che Gianni Agnelli chiamava “un cazzuto” in antitesi al “cazzone”.
Ha trascorso una infanzia infelice da semi orfano sballottato tra parenti vari e orfanotrofi, non ha studiato e non ha fatto il modello. È uno tosto come tosta è la vita di quelli nati sulla riva sbagliata della vita come diceva Céline.
E per tutta la vita Delon sarà un mito vivo, pulsante e rude, controcorrente: un cacciatore che si vantava di macellare con le proprie mani gli animali che uccideva per farne salumi e carni da pasto. Un personaggio scostante e spigoloso, nella vita come nel cinema.
Anche se nell'immaginario collettivo Delon è il raffinato Principe Falconeri del Gattopardo, ha in realtà quasi sempre interpretato personaggi rudi e violenti: poliziotti senza scrupoli, gangsters e perfino ladri zingari. Tutti ruoli che facevano a pugni con quella bellezza algida da dio Apollo che lo avrebbe relegato solo a romantiche raffinatezze.
Un film su tutti, per chi scrive, è Per la pelle di un poliziotto, modesto flic movie che lo vede anche come regista ma che è la quintessenza del suo carisma: un jeans e una giacca di tweed, una pistola e una moto, una donna stupenda e un sacco di cazzotti e ammazzamenti senza scrupoli, con una incredibile colonna sonora di Oscar Benton, Bensonhurst Blues.
Perfino nel ruolo di un professore di liceo durante il '68 Delon non perde l'aria arcigna e impenetrabile del duro di strada: è La prima notte di quiete di Zurlini, uno dei film in cui consacra’ un capo di abbigliamento che è uno dei suoi simboli, il cappotto di cammello, che rivediamo in Mr. Klein e ne Il figlio del gangster, e che lo mette in perfetta competizione con l'unico altro capotto erotico della storia del cinema, quello di Brando in Ultimo tango a Parigi.
Delon sta alla Francia come Paul Newman sta agli USA: un divo dalla bellezza sovrumana ma che è nella vita privata di una umanità incontenibile, rischiosa, viva e indomabile. Newman lo fu con le corse di auto e la morte del figlio, Delon con la caccia e i suoi 35 cani, lo sport e i motori. Ed anche in politica, fino alle ultime controverse posizioni da un lato ambientaliste e dall'altro lepeniste. Imprevedibile, cazzuto e mai banale, l'opposto di quel suo volto angelicamente perfetto che sembrava uscito dal pennello di un Bouguereau.
E le donne ovviamente, le più belle del mondo che gli cascavano letteralmente ai piedi. Chissà, molto probabilmente un Delon 4.0 sarebbe stato quasi certamente bisessuale, e quel modello inarrivabile di maschio dominatore oggi non ci appare grottesco solo perché la sua bellezza lo rende praticamente inattaccabile anche dal pensiero dominante.
Certo è che per un ventenne di oggi Delon non rappresenta praticamente nulla. Per quelli della mia generazione Alain Delon era sostanzialmente un modo di dire, un ritornello quasi musicale a indicare la bellezza assoluta e scontata. Ma per i suoi contemporanei Delon ha veramente rappresentato qualcosa di mitologico, di veramente difficile da spiegare.
Quel che è certo è che con Delon se ne va uno dei simboli dell'apice della società Occidentale del dopoguerra, quella i cui modelli hanno conquistato tutti i continenti del Pianeta e che tutti, dal Suamerica all'Asia cercano oggi di imitare ossessivamente e buffonescamente.
Ci piaccia o no, non ci sarà mai più un Delon come non ci sarà mai più per l’ Occidente un periodo straordinario come quello tra gli anni '50 e gli anni '80, ça va sans dire …
Bon voyage Alain.
(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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