Archivi e architettura: la vittoria della gioventù
Diceva Renoir che l’arte non è un mestiere, ma è il modo in cui si esercita un mestiere. E non a caso gli antichi greci, che di arte ne hanno capito più e prima di chiunque altro, chiamavano l’arte “teknè”, che vuol dire anche perizia, nel senso di saper fare bene una cosa. Quindi quale che sia l’attività che svolgiamo, sono dunque il talento, che è un dono e un esercizio, e la creatività, che è un dono e una fatica, a farla diventare “arte”. Per Michelangelo addirittura la scultura non era altro che un esercizio artigianale attraverso il quale si faceva emergere ciò che era già dentro il blocco di marmo: grande manualità ed ecco la bellezza.
Walter Gropius, il fondatore della Bauhaus che ha inventato il ‘900 in architettura e arredamento, diceva “l’opera d’arte rimane un prodotto tecnico, ma possiede in egual misura un proposito intellettuale da adempiere, e solo la passione e l’immaginazione possono farlo”. Ed ecco i due ingredienti segreti: passione e immaginazione.
L’immaginazione viene prima del talento, prima della creatività, prima della perizia. L’immaginazione è una spinta primordiale nell’uomo a vedere cose che ancora non ci sono, cui segue un irresistibile bisogno che quella cosa prenda forma. Il talento e la perizia sono il metodo con il quale l’immagine dalla mente prende corpo nella realtà. L’immaginazione è un neurone, fa partire l’impulso. La passione invece è un po' come un ormone: genera al contempo gioia e sofferenza, entusiasmo e fibrillazione, spossatezza ed energia. Ed è anch’essa oggettivamente incontrollabile.
Il grande problema del nostro secolo - come diceva Cirino Pomicino- è il professionismo: “io sono medico chirurgo, ma faccio tanto meglio il Ministro del Bilancio.” E aveva ragione: mai come nella nostra società la professione ha preso il sopravvento su tutto, arte compresa, con il paradosso che perfino quella dell’artista è diventata una professione, e addirittura in cui il talento interessa molto meno della “significatività sociale”. E Siccome la professione alla fine è uno status giuridico, è diventata burocratica. Ditemi oggi in Italia chi di noi non passa più tempo a compilare pratiche che a fare il suo mestiere.
E chi gareggia per il primato in questa triste classifica, sono certamente gli architetti. Chi fa l’architetto sa benissimo di cosa parlo: un disegno, cento scartoffie. La fine di ogni impeto creativo, anche del più resistente.
Eppure, sopravvive “in nuce”, si proprio in una piccola noce, quella scintillante perla che è immaginazione, passione e talento assieme senza il peso e l’oltraggio del professionalismo standardizzato: la giovinezza della professione, ovverosia la “Scuola”.
L’altro giorno sono stato alla Scuola di Architettura del Politecnico di Milano, Corso di Progettazione dell’Architettura, Laboratorio di Progettazione del prof. Tommaso Brighenti. Una ottantina di studenti del terzo anno che stanno lavorando con la nostra Cittadella degli Archivi sul tema dell’archivio in architettura dall’anno scorso. Un percorso graduale che dovrebbe portarci a disegnare il nostro archivio ideale: un luogo dove logistica, spazio, funzionalità e custodia si sposano perfettamente con cultura, studio, divulgazione e socialità. Non solo strutture supercontemporanee dotate di tecnologia sicurezza e spazi d’archivio che fanno risparmiare tempo e superficie, ma anche luoghi di interazione sociale con il patrimonio storico dotati di giardini, auditorium, spazi espositivi, ricreativi e perfino ricettivi ed ospitali.
Nell’orizzonte depresso della contemporaneità oltre il quale io personalmente non vedo da tempo nulla di buono, ieri si è aperto uno spiraglio di sole. Una sala piena di enormi tavoli ricoperti da decine di grandi progetti e modellini in cartone, disegni e stampe appesi su ogni muro o finestra utilizzabile e tutto attorno un febbricitante e al contempo sfinito formicaio di giovani indaffarati a lavorare in gruppi sugli ultimi ritocchi alle loro creazioni, tra picchi di entusiasmo e bolle di apatia. Tanta immaginazione e tanta “teknè”. I giovani ci mettono la passione e l’immaginazione, la Scuola ci mette gli strumenti, il “mestiere” e i riferimenti ai grandi del mestiere che alimentano l’immaginazione. E il risultato è energia pura: niente budget, niente vincoli, niente burocrazia: solo volteggianti creazioni che fanno quello che dovrebbe sempre fare l’architettura: costruire attorno all’uomo i suoi desideri soddisfacendo i suoi bisogni.
Nel suo splendido romanzo Ritorno a Brideshead, Evelyn Waugh ricordando le languide estati della adolescenza sospese tra gli anni scolastici scriveva così: “Il languore della giovinezza: unico e quintessenziale! La gioia, gli affetti generosi, le illusioni, la disperazione, tutti gli attributi tradizionali della giovinezza - tutto tranne questo va e viene con noi attraverso la vita... Queste cose fanno parte della vita stessa; ma il languore - il rilassamento dei tendini ancora instancabili, la mente segregata e riservata, il sole fermo nei cieli e la terra che pulsa al nostro stesso polso - appartiene solo alla Giovinezza e muore con essa”.
Nel “languore” un po' disconnesso e un po' leggero di quei ragazzi c’è il potere dei tendini instancabili e dell’immaginazione che si genera nelle loro menti riservate, in un rilassamento incurante della propria energia inesauribile. Nella dedizione esigente degli insegnanti c’è la grande professionalità di una “Scuola”, il Politecnico, che non a caso è una delle migliori al mondo.
C’è ancora una chance, ed è in quei giovani che questa nostra collettività mediatica è arrivata al punto nemmeno di dimenticare, ma anzi addirittura di colpevolizzare e punire come abbiamo visto dall’inizio di questa “pandemia”, con la sola accusa di non essere vecchi.
E’ ora di girare la clessidra.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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