16 febbraio 2025

Beato chi si fida e si affida a Dio

Dopo che Gesù ha chiamato i primi discepoli e prima del discorso che si legge in questa domenica, sono accaduti molti fatti secondo il racconto che ci presenta l’evangelista Luca, ultimo fra i quali è la scelta di dodici persone a cui Gesù dà il nome di Apostoli (cfr. Lc 6,13). Con i Dodici, ora Gesù discende dalla collina su cui si trovava e davanti a sé vede, in mezzo a molte persone provenienti da ogni dove geografico, religioso e culturale, una folla di discepoli, alla quale indirizza il suo insegnamento.

La prima osservazione che cogliamo dalle parole di Luca è l’uditorio a cui Gesù si rivolge. Gesù parla ai suoi discepoli, non a tutti i presenti ma ad alcuni in particolare. Siamo invitati a comprendere che quanto ora andiamo ad ascoltare non è detto a tutti, anche se tutti lo possono sentire. Le parole di Gesù sono specificamente per coloro che lo vogliono seguire e lo scelgono come guida e maestro per la loro vita. 

Avendo presente questo, capiamo che Gesù non sta facendo un discorso partitico o sociale, non sta arringando le folle per dire loro che alcune categorie devono essere eliminate in quanto nemiche della società o per essa pericolose.

Gesù insegna ai suoi discepoli e li invita a verificare se stessi, per capire se la scelta di seguirlo che hanno compiuto, la potranno portare a termine, dal momento che ci sono condizioni favorevoli per accogliere il Vangelo, mentre altre non lo sono per nulla. 

In secondo luogo, per ascoltare autenticamente questo brano di Luca, ci è utile stare attenti al modo in cui comprendiamo i termini utilizzati nella pagina evangelica, per non correre il rischio di sovrapporre al significato inteso da Gesù e dai suoi uditori, quello che a noi sembra più immediato.

Quando ci troviamo di fronte ad una persona che sta vivendo una situazione particolarmente serena, ci viene da dire: «Beato te!», intendendo che egli sia «fortunato», oppure «felice». Con il temine «beato», Gesù ha però in mente un significato prettamente religioso, in cui Dio è il protagonista. Questo potrebbe essere il senso delle beatitudini: «benedetti da Dio», «benvoluti da Dio». Beato non è chi è «fortunato», ma chi è «abbracciato dall’amore di Dio».

Allo stesso modo, il «guai» non è una maledizione, ma una messa in guardia: «Attenti!». Coloro che si trovano in particolari situazioni sono invitati a fare attenzione, poiché la loro condizione, non è buona come appare per accogliere il Vangelo.

A fare la differenza tra beatitudine e minaccia è la disponibilità ad ascoltare, accogliendo, l’annuncio di Gesù. Quando qualcuno è ricco, allegro e con la pancia piena, può pensare che il suo dio consista in quello che ha, in ciò che possiede. Dopotutto l’appagamento, la serenità, la mancanza di preoccupazioni materiali per il futuro gli vengono proprio dal possesso, dalla sicurezza che può riporre nei suoi beni. Al contrario, chi è povero, affamato, afflitto con le lacrime agli occhi, qualsiasi possa essere il motivo di questa situazione, non può riporre la propria sicurezza nella mancanza che vive, ed è così più spontaneamente portato ad affidarsi a Dio.

La differenza tra la beatitudine e la messa in guardia, deriva dall’affidamento o meno della propria vita nelle mani di Dio. Solo chi si fida di Dio e a Lui si affida, può accogliere l’offerta di salvezza che Dio gli propone nel Vangelo; chi trova la sua sicurezza nelle cose, anche se non se ne rende conto, a Dio ha già chiuso la porta e solamente si illude di ascoltare la parola di Gesù. 

Se non si tratta, come detto, di un discorso partitico, le parole di Gesù sono comunque un discorso politico.  Per questo le possono ascoltare tutti, anche chi non è discepolo. Si tratti di chi proviene dalla religiosa Giudea ed è addirittura cittadino della Città santa, si tratti di chi proviene dal mondo pagano dei litorali di Tiro e di Sidone, chi ascolta queste parole non può non interrogarsi sul loro senso provocatorio. Quello che Gesù dice è un discorso politico perché implicitamente invita, all’interno del gruppo dei discepoli, chi non ha a chiedere a chi ha, invita chi ha a condividere con chi non ha, come già aveva detto, evangelizzando, il Battista (cfr. Lc 3,10). Le parole di Gesù invitano la comunità dei discepoli a vivere della logica nuova che Egli annuncia, affinché essa sia un modello alternativo anche per la società in cui i cristiani vivono, mostrando come dal Vangelo proviene una ricchezza di vita e di possibilità che fa bene, a tutti.

Un’ultima parola che sentiamo nella quarta beatitudine e nel quarto monito ci interpella profondamente come comunità credente. Una Chiesa, uno stile cristiano, un modo di essere discepoli, che è da tutti lodato, forse ha perso la sua capacità profetica e rischia di perdere la possibilità di dire parole vere, perché radicate in Dio, quelle parole che spesso risultano scomode a molti. Gesù sprona i suoi discepoli di sempre a non aver paura dell’incomprensione, a non aver paura di essere minoranza alternativa. Quando papa Francesco ci invita ad alzarci dal divano, ci spinge a vivere un cristianesimo coraggioso, capace di parlare e di provocare, non spaventato dalle critiche e dalle incomprensioni. Un cristianesimo autentico perché alternativo alla logica comune, senza paura di dire qualcosa di evangelico anche sui temi più difficili per il mondo di oggi: la nascita, la morte, la guerra, il matrimonio, la distribuzione dei beni, l’equità sociale, l’accoglienza verso chi emigra per sopravvivere, il rispetto delle differenze ricomprese in nuovi orizzonti scientifici e culturali, la proclamazione del Vangelo come realtà trascendente che parla all’uomo del presente della sua vita e del suo futuro oltre la morte.

Francesco Cortellini


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