11 dicembre 2021

Bertold Brecht, l'Opera da tre soldi e la vita da Ferragnez

“Bisogna consumarsi le scarpe a furia di camminare perché non te le rubino dai piedi”. Così afferma, cinico e lapidario, Gionata Geremia Peachum, proprietario della ditta “L’Amico del Mendicante”, che in realtà è un racket bello e buono del crimine e dello sfruttamento dei diseredati dei bassifondi: una tipica mistificazione borghese delle apparenze che in realtà cela marciume e vergogne. E la frase è la perfetta sintesi del suo rapporto con la vita: è un mondo di ladri e farabutti, e se non rubi tu agli altri, gli altri rubano a te. Se non sfrutti tu gli altri, gli altri sfruttano te. E se la vita ti ha schiaffato nei bassifondi della società tra il marciapiede e la fogna, poco importa. Ruba e sfrutta gli ultimi più ultimi di te. Anzi, più sono miserandi e miserevoli, più meritano di essere fregati e sfruttati. Metà dei cattivoni di Walt Disney e degli anni d’oro del cinema hollywoodiano sono ispirati, più o meno esplicitamente, a Geremia Peachum.

Geremia Peachum è l’antagonista di uno dei capolavori assoluti del teatro del ‘900, “L’opera da tre soldi” di Bertold Brecht, andata in scena la prima volta nella Berlino del 1928, capitale della Repubblica di Weimar, culla della cultura mondiale. Ed è un violento attacco alla mentalità borghese e capitalista dell’industrializzazione e alla cultura ipocrita e stantia del Biedermeier, quella dei dipinti dei bambinetti col lederhosen (la tutina tirolese di vellutino) che mangiano le carotine sorridenti e che tanto piacevano al Kaiser Guglielmo II, che intanto aveva messo l’Europa a ferro e fuoco. Brecht li prende di petto con una manovra a doppia tenaglia: da un lato la provocazione di puntare i fari dello spettacolo sulle fogne della società e i loro sporchi abitanti sbattendoli in faccia alla realtà iper-perbenista tedesca di fine ‘800: ladri, assassini, prostitute e mendicanti che passano la vita a fregarsi tra di loro. Dall’altro Brecht mette inscena la più bieca mentalità borghese, quella dello sfruttamento senza requie del prossimo per denaro, ma nei panni dei diseredati, una operazione di “transfert” a dir poco geniale per provocazione.

L’influenza de L’opera da tre soldi sul teatro e sul cinema è incommensurabile: ogni volta che in un film, in una pièce o in un cartone animato ci sono i bassifondi, lì c’è Brecht. Il suo successo invece fu molto più difficile all’inizio, ma vent’anni dopo fece del suo autore una divinità del teatro oltre che una vera e propria icona della sinistra internazionale. In Italia fu il genio di Giorgio Strehler a tradurla sia linguisticamente che teatralmente per gli italiani, consacrando il Piccolo Teatro di Milano alla storia.

Sembrano passati mille anni: viviamo in una società dove i nostri ultimi sono diventati talmente borghesi che abbiamo dovuto prendere i nuovi ultimi da altre società, e dove l’emarginazione è talmente all’ordine del giorno e attenzionata che non farebbe nessun effetto usarla per scandalizzare.

E Poi c’è Amazon. E c’è “Vita da Ferragnez”. Esattamente l’opposto di Brecht: un viaggio zuccheroso nella quintessenza rilassante del successo e del benessere ultra-borghesi. All’inizio non ho proprio dato il minimo peso alla cosa, ma l’insistenza con cui Prime Video me lo ha riproposto in questi giorni mi ha spinto a guardare le prime due puntate della serie, dedicata alla vita quotidiana di Fedez e della Ferragni. Io parto sempre dal presupposto che quando milioni di persone seguono qualcuno, quel qualcuno ha meriti e talenti senza dubbio, soprattutto se ci guadagna: come diceva Clifton Webb, il denaro è l’origine di ogni male e quindi occorre averne il massimo rispetto. E lungi da me l’idea di sciorinarvi il cliché dell’intellettuale sfinito che inveisce contro la decadenza della società perché la gente guarda la cretinate invece dei programmi culturali (anche perché la gente, non essendo il popolo, non può che seguire le cretinate…). Ma non si può non eccepire davanti al niente elevato volutamente a sistema di vita: Fedez passa il tempo a dire che deve “fare la cacca” e “scapperarsi il naso”, la Ferragni a dire “patatino e patatone” a chiunque, e quando sono insieme non fanno altro che passare da un albergo a Cortina a una villa sul Lago di Como, tutti peraltro molto commerciali, filmando tutto coi propri inevitabili cellulari, perché la vita è Instagram, anche per loro. Non si può credere che la vita di chi riesce a guadagnare milioni sia così banale. Sembra finto perfino il loro mega attico da cinque milioni di euro in quei casermoni formato Love-Boat a City Life, posticcio e per niente lussuoso: una specie di scomodo bazar di oggetti super griffati in bella mostra pieno di spigoli e spazi angusti. Perché capisco che “la gente” sogni una vita di lusso e agiatezza, ma non capisco come si possa sognare il lusso finto, la bellezza plastificata, l’agiatezza costruita.  E più guardavo i Ferragnez, più mi veniva in mente Brecht: forse una semplice associazione di opposti. 

E’ pur vero che il paragone è scorretto, perché Vita da Ferragnez non è il Brecht degli anni 2000 ma tutt’al più è il Biedermeier degli anni 2000, e in giro per il mondo ci sono sicuramente dei Brecht contemporanei che non hanno ancora successo me che magari influenzeranno e provocheranno la società di domani.

Però l’idea che oggi il modello di vita desiderata sia questo, che è tutto finto e anche un po' al ribasso, e che un colosso come Amazon investa soldi in una operazione così banale, francamente fa un po' paura: perché se è vero che ogni epoca ha le sue debolezze, noi non possiamo far finta che Brecht non sia esistito.

Non ce l‘ho con Fedez e la Ferragni, fanno il loro mestiere. Ma sarebbe bello se Amazon, assieme al racconto finto delle vite dei Ferragnez, investisse e pubblicizzasse anche una riedizione de L’opera da tre soldi, per contrappunto almeno. Avere tutti i soldi del mondo (e Amazon li ha) impone quantomeno di lavarsi la coscienza, perché i ragazzi che hanno Prime Video si beccano i Ferragnez ma non sanno niente di Geremia Paechum, è questo è un crimine.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano   

 

Francesco Martelli


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commenti


Annamaria Menta

11 dicembre 2021 11:10

Splendido e centrato intervento (soprattutto nelle sue considerazioni conclusive). Con una sensazione appena accennata di brivido lungo la schiena....non per quello che scrive ma perchè quello di cui scrive esiste...

Martelli

11 dicembre 2021 11:45

Grazie come sempre!

Dani Azzola Farinotti

11 dicembre 2021 19:40

Spero che i Ferragnez lo leggano e che lo leggano in tanti,tantissimi e ragioniamo almeno un poco su questo paragone così attuale e tristemente reale

Martelli

11 dicembre 2021 21:54

Grazie Daniela!