Bitcoin e Crypto Arte: ricreare il “contesto” è l’unica via per trovare nuovi capolavori
Si sente sempre più parlare di arte digitale ed NFT (Non-Fungible-Token) Crypto Art, Blockchain. Esattamente come si sente sempre più parlare anche di Bitcoin, criptomoneta digitale e via discorrendo...
Non ho nessuna intenzione di addentrarmi nella spiegazione (e nemmeno nella comprensione a dire il vero) di queste nuove realtà virtuali. Molti sostengono che è il nostro inevitabile futuro, esattamente come lo furono i social oltre dieci anni fa. Può darsi: del resto l’inimmaginabile è ormai diventato regola dall’arrivo del Covid-19.
In un articolo di qualche giorno fa Giacomo Nicolella Maschietti faceva notare come all’ultima asta di Christie’s “The Warrior and the Bear” di Damien Hirst sia stata venduta per soli 3 milioni e mezzo di dollari. Pochissimo, se si pensa come giustamente viene fatto notare dal Maschietti, che dieci anni fa quell’opera, alta oltre sette metri, apriva una delle mostre che hanno cambiato la storia dell’arte superocontemporanea, e che Damien Hirst è l’artista vivente più pagato: un suo teschio diamantato aveva raggiunto i 100 milioni di dollari pochi anni fa. Nello stesso articolo si fa notare come la stessa Cristie’s ha battuto per 16 milioni di dollari i Crypto Punks di Lavar Labas: delle piccole faccine digitali, dalla grafica grezza e ridicola da Nintendo degli anni ’80, ma realizzate e vendute attraverso il sistema degli NFT .
In questa fase io rimango molto perplesso, e propendo per la nuova messa in scena di un sistema, quello dell’arte, che cerca di fare soldi spingendo sulle novità, cosa che peraltro è sempre stata fatta nel mercato delle quotazioni. Ma non è questo che mi interessa approfondire qui.
Alterne sono le vicende che nel tempo hanno avuto i tentativi di “dematerializzare” oggetti di uso quotidiano, con fortune altrettanto alterne.
Alla fine del regno del Re Sole, le casse reali emettevano i primi BOT e CCT, dei pagherò reali messi nero su bianco e garantiti dalla massima delle solvibilità, quella del Re in persona. Il risultato fu che pagherò reali da 100 monete d’argento di carta venivano volentieri scambiati dai francesi per 50 monete d’argento vere. Chiunque avrebbe scommesso che la cartolarizzazione del denaro non sarebbe mai avvenuta. Oggi quanti di noi maneggiano ancora denaro fisico? Quasi nessuno, ormai tutto il nostro denaro è moneta virtuale, senza bisogno di fare dei bitcoin chissà quale rivoluzione. Quindi, nel mercato del denaro la dematerializzazione è ormai realtà.
Nel mondo invece della documentazione, questo è avvenuto in parte. In Cittadella degli Archivi abbiamo un vecchio armadio cassaforte pieno zeppo di migliaia di microfilm fatti nei decenni addietro che non vengono più utilizzati. Abbiamo armadi interi pieni di diapositive, altri ancora di CD Rom. Tutti materiali che non vengono più utilizzati, ma che sono serviti per contingenze dell’epoca. Esattamente, a mio avviso, come si continua a digitalizzare oggi la carta, con nuovi strumenti e su nuovi supporti. I visitatori degli archivi mi fanno sempre moltissime domande sulla digitalizzazione: ma quando poi alla fine del tour gli mostro la cassaforte dei microfilm, intonsa da 30 anni, l’espressione sul loro volto è sempre la stessa: un po' mortificata, ma di fatto divertita e soprattutto rassicurata. Perché in fondo il digitale un po' ci fa paura: l’impalpabilità non ci rassicura. Mentre toccare un documento vecchio di secoli ci dà un senso rasserenante di continuità.
Succederà anche per l’arte? Non lo possiamo sapere per ora. La virtualizzazione delle mostre, delle fiere d’arte e degli spettacoli musicali e teatrali imposta dal Covid è stata di fatto un fallimento. Non c’è niente da fare, certe cose vanno fatte dal vivo.
Ma c’è un punto che a mio avviso è quello realmente interessante: possono cambiare i mezzi e gli strumenti, ciò che non cambia e la perenne ricerca spasmodica del “capolavoro”. La cultura, anzi la mania del capolavoro ha sempre caratterizzato il rapporto tra l’uomo e la bellezza, ma come diceva il grande John Berger, dopo la morte di Van Gogh è diventata una vera e propria fissazione: il mondo dell’arte secondo lui non si è mai perdonato di non aver capito proprio nulla di quel povero disgraziato, e per tutto il ‘900 non ha fatto che cercare degli artisti da trasformare in idoli da ricoprire d’oro, facendo di Picasso il fortunato capostipite di una foltissima schiera di artisti strapagati, come Damien Hirst appunto.
Ma oggettivamente, ahinoi, di capolavori e di grandi talenti in giro se ne vedono sempre meno, e questa nuova mania per NFT, Crypto art etc sa molto oltre che di business, anche di orrore del vuoto creativo tradizionale.
Federico Zeri, che rimane per me un maestro insuperato, si scagliava contro i musei contemporanei rei di essere impostati solo attorno ai grandi capolavori, mentre in essi si ignorava quasi completamente l’importanza essenziale di tutti i cosiddetti “artisti minori” e delle scuole e botteghe di pittura, senza le quali mai avremmo avuto Michelangelo, Leonardo, Raffaello etc… Cioè, il contesto artistico in cui erano nati.
Ecco il punto: è il contesto che crea il capolavoro, non è mai il capolavoro che spunta per caso dal nulla come per magia. E’ la grande illusione del nostro tempo, la ricerca spasmodica del nuovo talento, del capolavoro spuntato dal nulla, che poi porta a gonfiare a dismisura fenomeni improvvisi.
Come si crea il contesto? Facendo lavorare gli artisti giovani e viventi. E’ la storia della nostra Italia: è stata una instancabile produzione artistica millenaria a tutti i livelli e in ogni territorio, ad averci permesso di raggiungere da una immensa quantità di opere la assoluta qualità dei giganteschi capolavori.
In Cittadella degli Archivi negli ultimi quattro anni abbiamo fatto lavorare più di quaranta giovani artisti ad altrettante realizzazioni d’arte tutte dedicate al tema dell’archivio. Non lo abbiamo fatto perché cercavamo la “pepita”, il Banksy di turno che ci avrebbe reso famosi nel mondo con un click. Lo abbiamo fatto perché da custodi della storia, sappiamo bene che la storia è fatta di grandi avvenimenti che si reggono su montagne di carte sconosciute. Quelle carte sono il contesto. Quei quaranta giovani artisti sono il contesto.
Ecco, ricreare il contesto è la via maestra che devono seguire le istituzioni pubbliche e il mercato dell’arte, se vogliono avere ancora dei capolavori da vendere e da consegnare ai posteri.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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