Brunello Cucinelli e i Francescani: la rivoluzione dell'artigianato sociale
E’ tornato virale in questi giorni un vecchio video (https://www.youtube.com/watch?v=0-5fdFjosOQ ) di Brunello Cucinelli, notissimo industriale umbro del cashmere, in cui viene demolito l’uso eccessivo del cellulare, della mail ed anche lo stereotipo del manager “stravolto” dal lavoro.
Cucinelli fa a pezzi la maggior parte degli atteggiamenti tipici della contemporaneità, con il consueto fare bonario e ruspante, ma anche forte dei suoi 700 milioni di euro ricavi nel 2021, che confermano coi fatti che il suo modello di imprenditore-umanista evidentemente funziona. Chi sta troppo connesso ha un deficit di attenzione, chi ha centinaia di mail da aprire nella posta non si deve vantare perché vuol dire che non lavora bene, chi si vanta di essere distrutto dal superlavoro non capisce che poi lavora malissimo e chi invece di ascoltare gli altri legge continuamente i messaggi sullo smartphone non capisce niente.
Chi scrive trova il video decisamente condivisibile, e a quanto pare siamo in molti visto che il video è tornato a essere condiviso su moltissimi social. Eppure, quasi tutti siamo complici e schiavi dei comportamenti che Cucinelli stigmatizza. La qualità della vita, e soprattutto della vita lavorativa è tornata improvvisamente di attualità grazie alla pandemia, che come tutti i mali non viene solo per nuocere: ci ha mostrato professioni che sembravano imprescindibili cancellate in un batter d’occhio, che lavorare da casa si può anche più che in ufficio, che si può evitare di fare i pendolari gettando ore della propria vita in inutili spostamenti, che si vive meglio in una casa in provincia spaziosa con magari un giardino anziché strizzati in un costosissimo monolocale metropolitano.
Ma che sia proprio un imprenditore umbro, che si ispira a San Francesco, e che del frate francescano ha un po' i tratti bonari, a farsi alfiere di questo “contro-pensiero” non è a mio avviso poi così casuale.
L’Umbria, come gran parte del nostro Paese, è una terra baciata dalla bellezza, dalla santità e dalla storia, l’ubertosa provincia italiana che mezzo mondo sogna e idealizza, e che però è anche da secoli fucina di creatività artistica e imprenditoriale.
E i Francescani ne sono in buona parte gli artefici. Anzitutto il loro fondatore, Giovanni di Pietro di Bernardone poi divenuto Francesco in onore della mamma francese, era figlio di mercanti. Quindi un po' il commercio l’aveva nel sangue, volenti o nolenti. E infatti fu uno straordinario “venditore” di fede tra il popolo: e proprio in questo cercare di diffondere “tra il popolo” la fede sta di fatto una delle straordinarie rivoluzioni del francescanesimo e dell’Umbria: furono i primi monaci a uscire dai monasteri e tornare nel mondo, mentre per tutto l’Alto Medioevo il monaco era proprio colui che dal mondo si era ritirato (Is qui luget veniva chiamato, colui che piange per la miseria del mondo). In quella costellazione di borghi che è il centro dell’Italia di allora prende corpo una nuova classe di artigiani, mercanti e venditori che prenderà poi proprio il nome di borghesia. Da quella borghesia viene San Francesco, non dall’aristocrazia, e da buon mercante si muove per la sua nuova evangelizzazione e nel territorio naturale (che ama e protegge) e dentro il tessuto sociale e umano. Questa contaminazione del Santo di Assisi con il popolo e la natura avrà un influsso dirompente anche nella società e nell’arte, non solo nella teologia e nella Chiesa.
Gli archivi storici della Toscana, dell’Umbria, delle Marche grondano, nei registri che le autorità cittadine tenevano degli accadimenti annuali, racconti e testimonianze di questo brulicante andirivieni di personaggi che muovevano da una cittadina all’altra per vendere, comprare, offrire i propri servizi, imparare o trasmettere dei mestieri. Perfino gli affreschi di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi testimoniano questa centralità del “mestiere” e del territorio: nelle Storie di San Francesco si esce dagli ori bizantini iperurani e compaiono i paesi, le case, gli alberi, le rocce, e nel Presepe di Greccio campeggia un grande crocefisso visto dal retro che sembra un perfetto libretto di istruzioni su come si monta un crocefisso, che non ha nessun motivo di essere lì se non per tradire la totale permeazione che il lavoro, il mestiere, avevano fatto perfino dell’arte e della pittura. Arte e pittura che del resto erano per gli antichi una tecknè, cioè una forma di artigianalità creativa, così come creativa è stata da sempre la nostra artigianalità italiana che ha poi primeggiato nei campi della moda, del design, della pubblicità. Le splendide pale d’altare dorate del ‘300 sono dei capolavori molto più di artigianato che d’arte: la scelta del legno, degli alberi, il taglio con la luna calante perché non si avessero a deformare dopo, le ore di levigatura e di olio di gomito per renderli delle perfette tavole lisce che non trasudassero, il costosissimo e delicatissimo lavoro di fogliatura con l’oro, e poi la tracciatura puntino per puntino di ogni figura… centinaia di ore di lavoro oggi inconcepibili ma che ci consentono di contemplare dopo sette secoli questi capolavori intatti. Si creava per i contemporanei certo, ma con lo sguardo alla storia e ai secoli avanti, altro che “il compra con un click” del cavolo che ci tormenta oggi. Stradivari docet, e non devo aggiungere altro...
Il periodo fenomenale che ha realmente creato le fondamenta del mito dell’Italia Rinascimentale nel mondo è il Dusénto (cioè il XIII° secolo), dove arte, natura, artigianato e creatività erano un tutt’uno con l’umanità, cioè con l’uomo comune come fruitore ultimo forse per la prima volta nella storia: San Francesco, Cimabue, Giotto, Dante Alighieri erano tutti uomini del Dusénto, dei rivoluzionari del genio immisurabile che hanno creato un’era nuova partendo proprio da un rapporto imprescindibile con il territorio e la società che li circondava.
Noi, e in questo sono pienamente d’accordo con Cucinelli, dobbiamo assolutamente recuperare questo rapporto fisico con il nostro territorio e la nostra storia italiani, un rapporto di sinergia, di rispetto, di ispirazione creativa e di tutela ispirata. E sono certo che ne risorgerebbero le nostre economie: la rivoluzione “green” è nata in Italia nel Dusénto ed era a 360°, non dobbiamo farci insegnare niente da nessuno. Dobbiamo solo guardare indietro, ristudiare la nostra storia e riadattare un modello che ha sbalordito il mondo per quattro secoli.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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