Cappi, quando moderato voleva dire riformatore
Apprendo dalla gustosa rivelazione di Francesco Nuzzo che Giuseppe Cappi, cremonese illustre, autorevolissimo in Assemblea Costituente, nonché membro e poi presidente della Corte Costituzionale, non riteneva le donne degne di accesso alla magistratura in quanto guidate più dal sentimento che dalla ragione. Che dire? La dantesca legge del contrappasso evidentemente funziona ancora molto bene se all’ipocondriaco scapolone, passato a miglior vita nel 1963, toccò di avere come prima biografa proprio una donna, per giunta giovanissima. Ce la misi tutta, era il mio primo libro, chiave d’accesso alla carriera accademica. Se ‘sentimento’ fu impiegato - e una biografia ne richiede parecchio per raggiungere la necessaria empatia col personaggio - la sua funzione fu di aiutare e non di accecare la ragione. ‘Ragione e sentimento’, fatale binomio e celebre romanzo dell’immortale Jane Austen che vivamente consiglio a chiunque ancora si aggrappi a tanto patetica chincaglieria maschile.
Ma eccomi al punto. Lo scorso 2 dicembre il Comune di Castelverde e il centro culturale Agorà hanno opportunamente dedicato al prestigioso concittadino Giuseppe Cappi, nel sessantesimo della scomparsa, un bel convegno al quale ho avuto il piacere di intervenire. E proprio ripercorrendo per l’occasione la biografia del personaggio, fine umanista, ottimo oratore e fecondo scrittore - vale a dire generoso donatore di fonti documentarie ai posteri - mi sono imbattuta in un’imprevista constatazione. Di fronte a me non avevo reperti di un passato storicamente concluso ma criticità e questioni nazionali tuttora più che mai aperte ma già a suo tempo identificate dal lucido sguardo indagatore di Cappi. Mi limito a una, per molti aspetti riassuntiva e, dati i miei gusti, adeguatamente provocatoria.
Parto dunque dalla parola ‘moderato’ tuttora di larghissimo corso nel linguaggio comune e giornalistico per identificare quell’area mediana della geografia politica che si tiene cautamente distante da posizioni estreme. L’area di ‘color che stan nel mezzo’. E non c’è dubbio che il cattolico liberale Cappi, caratterialmente, culturalmente e ideologicamente moderato, vi sia ascrivibile. Il suo stesso ruolo di Samaritano paziente spargitore di olio sulle ferite di una Dc in precoce frantumazione correntizia fu, per certi versi, un capolavoro di abilità mediativa e riparatrice sistematicamente spesa a sostegno dell’insidiata leadership degasperiana. Mi guarderei bene tuttavia dall’esaurire nella semplice etichetta antropologica di ‘moderato’ il ben più articolato e ricco spessore politico di Cappi. Il perché è presto detto. In Cappi convivevano, fuse in perfetta sinergia, due caratteristiche apparentemente inconciliabili: moderatismo e radicalismo. Tanto era ponderato negli strumenti operativi e nel disegno sociale perseguito quanto era radicale nell’intransigente fedeltà al primo e ultimo fine della politica: mettere in sicurezza i deboli promuovendone lo sviluppo materiale ma non solo materiale. Fine, questo, a maggior ragione vincolante per una politica ispirata ai valori cristiani, pur se praticata in chiave rigorosamente anti integralista. Decisivo in questo senso era stato l’esempio del padre Ercolano, leggendario medico condotto che, sotto neve o solleone, instancabilmente batteva le cascine della ‘bassa’ per recare sollievo alle miserrime condizioni delle plebi contadine. L’interesse fattivo e non retorico alla causa degli ultimi in Cappi nasce lì, da osservazione diretta e condivisione istintiva delle scelte paterne. Ancora adolescente, s’imbatte in un’evidenza che non dimenticherà mai più: per essere di effettivo aiuto ai poveri non è affatto necessario essere seguaci di Marx e militare a sinistra. Tutt’altro. Il suo moderatismo non era dunque la cautelosa tattica di ‘color che stan nel mezzo’ ma la ferrea convinzione che una politica concretamente riformatrice e operatrice di giustizia non può che ispirarsi a quella concezione mediana che, per l’appunto, prese storicamente forma nella ricetta dell’interclassismo degasperiano.
Benché la vita di partito non gli abbia risparmiato inevitabile dose di malumori, grattacapi e delusioni, a Cappi toccò l’innegabile privilegio di vivere una Dc nel pieno della fase propulsiva e della sua breve ma incisiva ‘età di Pericle’. Riforma agraria, alfabetizzazione di massa, industrializzazione, strumenti previdenziali, arricchimento dell’articolazione sindacale con la nascita di quel ‘sindacato americano’ - la Cisl - che ribaltava ogni tradizionale concezione del rapporto fra capitale e lavoro indirizzandoli verso innovative esperienze di collaborazione e condivisa responsabilità. Una parola per riassumere il senso di un’epoca: ascensore sociale, proletariato che si fa ceto medio. Processo esattamente inverso rispetto all’attuale che vede crescenti quote di ceto medio scivolare lungo il piano inclinato di una proletarizzazione cui la politica, in difetto di risorse strategiche, non riesce a opporre che emergenziali tamponi.
Da una parte la debolezza di un moderatismo svuotato di genialità progettuale e troppo diverso dalla solida alleanza centrista, capace di respiro strategico, ideata e tenacemente difesa da Cappi. Dall’altro i ricorrenti assalti di mediocri rottamatori, perlopiù segreti fautori del ‘tanto peggio, tanto meglio’. Questa, in sintesi severa ma non fantasiosa, è l’Italia dei nostri giorni di cui Cappi non andrebbe gran che fiero. A un giovane ‘rottamatore’, di ben superiore calibro rispetto agli attuali, confidava in una lettera del ’53 le evidenze raggiunte dopo lunga pratica di uomini e stagioni storiche e la convinzione che solo in una riforma delle coscienze, a partire da quella delle classi dirigenti, sta la premessa e il luogo genetico di ogni successiva riforma delle cose : “Non le pare di veder troppo nero? Che la nostra democrazia sia tutta falsa e bugiarda? Che nulla significhi aver riscattato l’Italia dalla vergogna e avere in pochi anni compiuto un’opera di ricostruzione che ha del miracoloso? Rovesciamo pure l’attuale regime sociale, economico, l’attuale classe dirigente, per sostituirvi che cosa? Bastasse cambiare un regime per avere il trionfo della giustizia e del bene. Purtroppo invece, la guerra, il male, hanno altre, più profonde radici nel cuore stesso dell’uomo. Qui bisogna lavorare”.
In poche righe c’è tutto Cappi e la sua alta lezione. Lezione rievocata e onorata dal Comune di Castelverde e curiosamente negletta da quello di Cremona, a quanto pare troppo occupato nel suo stagionale calendario liturgico a onore e gloria di torroni, salami e cotechini.
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