30 gennaio 2022

Caro Signore, tu mi turbi! Ed è bene che sia così!

Quando si parla di profeti si rischia sempre di cadere in un fraintendimento. Nell’immaginario popolare, infatti, il profeta è colui che predice ciò che avverrà, una sorta di indovino che ha il potere di avventurarsi nel futuro e che è chiamato a mettere in guardia le persone del suo tempo da eventi terribili e minacciosi. Nella Sacra Scrittura non è così: il profeta, lungi dall’essere un chiaroveggente, un mago, un negromante, è un chiamato! Egli non sceglie questo ruolo, anzi a volte cerca di rifiutarlo e di rifuggirlo, perché sa che andrà incontro ad incomprensioni, dileggi, emarginazioni. Il profeta, infatti, è scelto da Dio perché richiami il popolo eletto ogni volta che si allontana dalla vera fede, che si abbandona all’idolatria, che dimentica di fidarsi dell’unico Dio e pone le proprie sicurezze nella forza e nelle strategie umane, ogni volta che si abbandona ad una religiosità legalista e formale e che separa il culto della vita onorando Dio con le labbra, con incensi e sacrifici, ma calpesta la dignità dell’uomo appena ha varcato l’uscita del tempio. Il profeta è la voce dei poveri: dell’orfano, della vedova, dello straniero, di chi, nella società ebraica, non ha voce ed è per questo il prediletto di Dio.

Insomma il profeta richiama, rimprovera, scuote, graffia la coscienza dell’uomo quando questi dimentica di dipendere in tutto e per tutto da Dio, quando si erge a Dio di sé stesso, quando disonora Dio sfruttando, opprimendo o disinteressandosi dei più fragili della comunità.

Nella storia di Israele, nei momenti più difficili, quelli dello smarrimento, dell’arroganza, della tiepidezza, Dio fa sempre sorgere delle presone che difendono il suo primato, richiamano alla freschezza e all’autenticità della fede, spronano ad una carità appassionata e credibile.

Lo ha sempre fatto anche nella storia della Chiesa: nei momenti più faticosi il Signore ha posto degli uomini e delle donne che si sono caricati dell’incapacità e dell’ipocrisia dei pastori e indicato la strada del rinnovamento. Accanto a Innocenzo III, appesantito da onori e privilegi, Dio ha fatto sorgere Francesco, il poverello di Assisi, che con il saio logoro e il suo sorriso innocente e disarmante, ha rivitalizzato la Chiesa dal basso. E così accadde con Santa Caterina da Siena nel XIV secolo, con San Filippo Neri nella Roma rinascimentale… fino ad arrivare al nostro don Primo Mazzolari che con i suoi scritti e la sua predicazione fu un antesignano del Concilio Vaticano II.

Il profeta, anzitutto, è un innamorato di Dio: è talmente infiammato da tale amore che non riesce a tacere quando vede calpestato l’onore, il primato, l’unicità del Signore, quando si accorge che gli uomini invece di servire si servono di Dio per i loro piccoli e squallidi scopi, quando vede che l’uomo - che è immagine e somiglianza del Creatore - viene sfruttato e calpestato.

Nel cuore del profeta pulsa il cuore di Dio ed è per questo che non può rimanere indifferente di fronte alle ingiustizie, ai soprusi, alle violenze, ma anche al pessimismo che blocca e immobilizza, alla disperazione che atterra e sconfigge, alla mediocrità che tutto livella e impedisce di volare alto, al giudizio che non si apre alla misericordia, alla carità che non si sporca le mani e i piedi.

Sempre Mazzolari soleva dire che il cristiano è “un uomo di pace, ma non un uomo in pace”, perché di fronte a questo mondo così lontano dal Vangelo, ma anche così assetato di Vangelo, non può rimanere inerte, non può non alzare la voce, non può non indicare l’unica strada che permette di ricondurre l’uomo a ritrovare sé stesso e a rintracciare le ragioni vere della fraternità: Cristo Gesù, vero Dio e vero uomo!

La più grande profezia di cui oggi il mondo ha più bisogno è quella dell’amore. Per fare questo occorre, anzitutto, che i cristiani non abbiano paura di smascherare quel “finto” amore che domina la società di oggi e che è soltanto ricerca del proprio piacere, del proprio appagamento, del proprio godimento. Quell’amore che è inquinato dal narcisismo, dalla genitalità, dall’immaturità, dall’egoismo. Urge, invece, annunciare un altro amore, quello cantato da Paolo nell’inno alla carità della prima lettera ai Corinzi: l’amore che è dono gratuito e oblativo, che è dimenticanza di sé, che si appaga solo del bene dell’altro. Amore che richiede continuamente un morire a sè stessi, alle proprie aspettative, ai propri capricci e desideri, ai propri progetti. Amore che trova nel Crocifisso l’esempio più fulgido e affascinante!

Nel Vangelo di questo domenica Gesù si trova sempre a Nazareth, in quella sinagoga dove poco prima aveva annunciato che la profezia di Isaia si è compiuta proprio nella sua persona: lui è infatti l’anno di grazia e di misericordia del Signore, lui la liberazione dal male e dal peccato, lui la grande risorsa dell’uomo per riappropriarsi della propria dignità e del proprio ruolo nella storia della salvezza, lui la Parola che si fa carne e che ricrea il mondo!

E proprio nel suo paese Cristo esercita la missione di profeta smascherando le false attese dei nazaretani su di lui. Essi vorrebbero “controllarlo”: nelle sue parole che soppesano pieni di pregiudizi - “Non è costui il figlio di Giuseppe?” - e nei suoi gesti pretendendo che compia miracoli anche tra di loro e non solo a Cafarnao. Ma Dio non è incasellabile, non è manipolabile, non è immediatamente comprensibile: sarebbe un idolo che liscia continuamente il pelo all’uomo e invece, proprio a causa del suo cuore duro e capriccioso, Dio, il vero Dio, inquieta, turba, richiama ogni uomo alla verità di sé stesso! A volte anche graffiando…

Claudio Rasoli


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commenti


Pinuccia Fieschi

30 gennaio 2022 07:09

Come sempre il nostro don ha fatto centro.

Ivana

30 gennaio 2022 12:55

Grazie di questa riflessione edificante