Castellitto e un nuovo film su D’Annunzio: dall’inventore dei “beni culturali” all’antichità della nazione.
Si chiama “Il cattivo poeta” ed uscirà nei cinema, finalmente aperti, il prossimo 20 maggio il film di Gianluca Iodice dedicato agli ultimi anni di Gabriele D’Annunzio, interpretato da un somigliantissimo Sergio Castellitto. Per ora se ne può solo vedere un trailer di due minuti, ma appare da subito piuttosto evidente che il film tende a dare del “Comandante” una immagine tutt’altro che negativa, con una piuttosto marcata distanza dal fascismo.
Per quale motivo nel 2021 esce un film su D’Annunzio, e non in chiave negativa? L’unica concomitanza storica è con il centenario della sua ritirata ufficiale e definitiva dal palcoscenico mondiale dopo la caduta di Fiume e l’ultimo asilo a Gardone sul Garda, dove dal 1921 erigerà a sua immagine e quale retaggio estetico lo splendido Vittoriale che ancora oggi possiamo ammirare. Ma non è sufficiente a giustificare un intero film. La figura di D’Annunzio non è mai uscita, nella cultura di massa, del limbo del proto-fascista e del cocainomane libertino, e certo anche a causa della non celata, e in parte giustificabile, damnatio memoriae da parte della cultura italiana dal dopoguerra ad oggi. E’ oramai però altrettanto riscoperto che D’annunzio fu molto, molto di più. Poeta e scrittore di livello assoluto, grandissimo giornalista, impavido soldato e decoratissimo eroe di guerra, raffinato esteta ed elegantissimo protagonista dell’alta società internazionale, D’Annunzio era tra gli anni ’10 e gli anni ’20 l’italiano più famoso e amato nel mondo. Gloria italiana vivente, ebbe col fascismo un rapporto sempre controverso, un misto di ammirazione e ispirazione, disgusto e ripudio, sfruttamento e convenienza, sempre piuttosto reciproche: se non con tutti i fascisti, di certo col più fascista di tutti, Benito Mussolini. Il quale riassunse questo rapporto in una sola perfetta frase: “D’Annunzio è come un dente guasto. O lo si estirpa, o lo si ricopre d’oro”. E l’oro fu la scelta che il Regime offrì al Vate in cambio del suo esilio dalla vita politica. Oro che, nonostante i vertiginosi compensi professionali che il poeta riceveva da tutto il mondo (un editore americano gli diede un milione di dollari per una autobiografia che non scrisse mai), serviva ad arginare lo tsunami di debiti che lo ha inseguito per tutta la vita.
“Agli artisti lo Stato dovrebbe riconoscere delle rendite e milionarie!, perché custodiscono la bellezza e la donerebbero a tutti…” Così diceva, e a questo serviva il denaro a D’Annunzio: non tanto a vivere nel lusso, del quale comunque si dichiarava dipendente come dall’aria, ma a fare della propria vita l’opera d’arte totale, lasciando al mondo una eredità di perfezione estetica da contemplare e a cui ispirarsi. Per questo trasformò una vecchia casa colonica, spendendo cifre folli, nel Vittoriale degli Italiani: un luogo che ancora oggi dà lavoro a più di 40 persone, che viene ogni anno visitato da migliaia di turisti e che è stato dichiarato il più bel parco d’Italia nel 2020. E non a caso cito questi numeri: fu proprio D’Annunzio a coniare il termine “beni culturali”, che oggi addirittura è la dicitura ufficiale del nostro Ministero, e fu lui il primo nel ‘900 non solo a fare della cultura un mestiere spaventosamente redditizio, ma anche ripetere instancabile agli italiani che “la fortuna dell’Italia è inseparabile dalle sorti della bellezza di cui Ella è madre”. Fu proprio battendo senza sosta sul primato culturale che D’Annunzio diede linfa all’orgoglio nazionale in una Italia asfittica, che purtroppo degenerò ahinoi nelle storture del nazionalismo fascista. Non che il Vate ci andasse leggero eh… “Se le razze latine vogliono salvarsi dalla morte, non c’è che una via: tornare al salutare pregiudizio che fuori da esse vi è solo barbarie”. Solo su questa frase si potrebbero scrivere pagine di rimprovero per i termini e al contempo di condivisione per la rude schiettezza con cui si indica l’unica via di sopravvivenza del popolo italiano, la valorizzazione del proprio passato e della propria cultura. Il dramma La Nave, tutto incentrato sulle glorie del passato italiano, fu accolto con un successo spaventoso nell’Italia degli anni ’10, che era ben lungi dall’essere fascista ma smaniosa di credere in sé stessa.
L’antichità ed il prestigio della nostra nazione è del resto oggetto plurisecolare del dibattito storico e data la centralità assoluta del nostro paese nella cultura mondiale, anche di pressioni internazionali: mentre più a sud giganti del pensiero come Giambattista Vico sostenevano strenuamente la diretta discendenza degli italiani non dai greci o dai romani ma dagli autoctoni ed antichissimi etruschi, nella Milano napoleonica si incoraggiavano le discendenze celtiche ed il primato druidico che Bonaparte volle costruire con la fondazione dell’ Académie Celtique. Gli stessi spagnoli spesero fortune immense nel Ducato di Milano per farne nel XVII° secolo l’avamposto della Monarchia Universali, assoluta e cattolicissima, contro la valanga dell’Iperium Mondanum, protestante e relativista, che franava sull’Europa dalle tesi di Lutero e dai Principati di Germania.
Può darsi che D’Annunzio torni alla ribalta perché siamo divenuti ormai un popolo di eleganti e goderecci festaioli e bons vivants, e che ci piaccia trovare sollievo in un elegantissimo scavezzacollo libertino e divertente. Oppure perché non sapendo più a che Santo votarci, andiamo a cercare di salvare il salvabile dove non abbiamo più messo piede da 80 anni… Molto improbabile che lo facciamo per un qualche rigurgito di orgoglio nazionale. Ma poco importa: mai come nel nostro prossimo futuro il lavoro, di cui celebriamo la festa, tornerà ad essere dopo anni, realmente, un tema terribilmente attuale ed irrimandabile, molto più di altre questioni che oggi la fanno da padrone. E quando accadrà, facciamo tesoro anche di quel D’Annunzio che ancora oggi crea lavoro col suo Vittoriale, lascito di bellezza e storia, e che ripeteva senza posa che la nostra fortuna di italiani è inseparabile dalle sorti della bellezza di cui la nostra Italia è madre.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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