Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso!
“Dio esiste e vive a Bruxelles” è un brutto film del 2015 del regista Jaco Van Dormael che dipinge l’Onnipotente come un ometto sadico e dispotico che ha creato l’umanità solo per avere qualcosa da tormentare; egli vive in un piccolo e lurido appartamento nella capitale belga insieme alla moglie e alla figlioletta e controlla e manipola la realtà da un vecchio computer collocato nel suo studio. Il lungometraggio, rozzo e volgare, rivela, però, un’ancestrale convinzione umana che nemmeno la vita e il messaggio di Gesù Cristo sono riusciti a scalfire: il fatto, cioè, che Dio determini tutto e l’uomo sia solo un giocattolo nelle sue mani. Basta che il Creatore schiacci un pulsante e le persone si ammalano, subiscono incidenti, litigano tra di loro, perdono il lavoro. L’umanità, dunque, sarebbe immersa in un grande gioco di società che mira a divertire un Dio annoiato che non sa come trascorrere l’eternità.
Soprattutto alberga nel cuore umano la grande paura che le situazioni avverse, che spesso accadono in modo imprevisto, sono una “punizione” di Dio per il male commesso o gli errori compiuti in precedenza. Chissà quante volte, di fronte all’ennesima difficoltà, abbiamo alzato gli occhi al Cielo e, sospirando, abbiamo esclamato “Perché Signore? Che male ho fatto per meritare tutto questo?”. In questo caso Dio non sarebbe seduto al computer a pigiare bottoni, ma affacciato alla finestra, con la carabina in mano, pronto a sparare appena si cade in fallo!
La convinzione era viva anche nel popolo d’Israele e – ahimè – era addirittura un pilastro della fede ebraica: una malattia, una disabilità, un fallimento professionale o umano, una morte improvvisa erano sempre considerati una punizione di Dio per i propri peccati personali o addirittura per quelli dei propri genitori o antenati. A tal proposito è eloquente la domanda che i discepoli rivolgono a Gesù circa un israelita che non ci vedeva: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Gv 9, 2). Terribile!
Nel Vangelo di questa terza domenica di Quaresima si parla di due gravi fatti di cronaca che hanno seminato morte e dolore: da una parte Pilato che ha fatto uccidere parecchi galilei durante una cerimonia sacra sfociata in ribellione e dall’altra il crollo della torre di Siloe, a Gerusalemme, che aveva causato 18 morti. Spinti da questi eventi tragici i pii israeliti si interrogano sul male commesso da queste persone per meritare delle morti così atroci e il quesito giunge alle orecchie del Maestro di Nazareth. Gesù, con poche e chiare parole, scardina la malsana idea che Dio sia un “castigatore”, un “giustiziere della notte” ante litteram: le disgrazie e le contrarietà che accadono non sono opera di Dio e non mirano certo a punire l’uomo peccatore in una sorta di “processo per direttissima”! Anzi con Cristo la sofferenza e il dolore, da mezzi per castigare i peccati, sono diventati strumenti di redenzione e di salvezza per tutto il genere umano, vere e proprie manifestazioni di amore per un mondo troppo malato di autosufficienza, di edonismo, di narcisismo. La sofferenza è la misura dell’amore portato all’estremo, è partecipazione al grido dell’umanità che si è abbandonata al male e all’assurda pretesa di poter fare a meno di Colui che l’ha creata e continuamente la sostiene. La sofferenza è come un elettroshock che richiama l’uomo alla sua finitudine, alla sua piccolezza, al suo naturale bisogno di affidarsi e di amare!
Quei Galilei uccisi da Pilato o quelle persone morte a causa del crollo della torre di Siloe non sono stati puniti e non sono certamente peggiori di tutti gli altri. Perché è accaduto questo a loro? Gesù non lo spiega! Certe sofferenze, certe lacrime, certi dolori rimangono un mistero che Dio non chiarisce, ma che, però, si carica sulle spalle fino al Golgota, fino all’estremo sacrificio!
Cristo, però, sposta l’attenzione da loro a noi e ammonisce: questi fatti cruenti dicono che la vita è breve, è tremendamente precaria, immensamente fragile! Siamo come pellegrini su questa terra e chi crede di poter piantare le tende e trovare una felicità duratura quaggiù è un ingenuo, un illuso, un presuntuoso! La vita è una folata di vento, uno schiocco di dita, l’eco di una voce lontana, per cui non ha senso perdersi in litigi e alterchi, invidie e gelosie, nella ricerca spasmodica di sé stessi, nell’accumulo di beni a discapito dei fratelli e dell’ambiente. La vita è breve e l’unico modo per renderla eterna, inattaccabile dallo scorrere inesorabile del tempo, è amare senza misura, è seminare solo e unicamente il bene, è impegnarsi a lasciare in condizioni migliori ciò che è stato ricevuto in dono.
Il male che c’è nel mondo, la sofferenza che proviamo ogni giorno, il dolore che si attacca alla nostra pelle e non ci lascia mai, non sono una punizione di Dio, ma sono la conseguenza del nostro peccato, della nostra arroganza, della nostra supponenza, della nostra assurda pretesa di prendere il posto del Creatore.
La pandemia per Coronavirus o la guerra in Ucraina non sono le giuste ricompense che il Padre ha pensato per l’umanità che gli ha volto le spalle, ma il risultato del nostro rifiuto dell’amore così come ci è insegnato da Cristo Crocifisso!
Quel “Convertiti o perirete tutti allo stesso modo!” non è, quindi, una minaccia di Gesù, non è un preannuncio di un castigo imminenti, ma un estremo atto di misericordia, una sorta di richiamo, un appello a cercare sempre solo il bene! Gesù in pratica sta dicendo: “Cambiate vita, cambiate atteggiamento, cambiate stile o produrrete solo male e il male alla fine vi inghiottirà!”.
“Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso!”, riassumerebbe così la cultura popolare!
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