25 settembre 2021

Cittadella inaugura: vale ancora la pena fare cultura?

Oggi scrivo un po' “pro domo mea”: oggi infatti in Cittadella degli Archivi inauguriamo un autunno molto speciale. Torniamo ad aprirci per un evento pubblico a quasi due anni dall’ultima inaugurazione.

Una apertura, quella di oggi, dannatamente sofferta e incerta: frutto di un lavoro sotterraneo durato un anno e mezzo nella più totale incertezza, quella dell’era post Covid, con la cultura congelata come  . Avremmo ancora avuto la possibilità di fare eventi pubblici? E soprattutto, quanto è fondamentale per la cultura, per l’opera d’arte, la condivisione, la pubblicità, il riconoscimento? 

Abbiamo chiamato altri 10 artisti a realizzare 40 murales dedicati alla storia di Milano, nel solco dei 40 già realizzati, un nuovo scultore, che grazie alla generosità di un collezionista arricchirà con una nuova installazione il nostro giardino, e presenteremo addirittura un progetto di digitalizzazione dei nostri documenti con l’ausilio di alcuni ragazzi affetti da sindrome di Asperger. In ultimo, la grande mostra con il Politecnico di Milano ed i suoi meravigliosi studenti che tanto è stata apprezzata dai lettori di Cremonasera nel suo primo racconto.

Fin qui tutto benissimo. Ma ne vale ancora la pena? È questo un Sistema-Paese che vuole ancora che si facciano le cose, oppure no? L’inaugurazione di oggi significa anche lavoro: artisti, imbianchini, falegnami, grafici, elettricisti, allestitori, fornitori. Con la cultura, come diceva il Daverio, si mangia. E come diceva Paolo Grassi, le azioni dell’uomo sono figlie della sua cultura. E allora perché è diventato tutto così difficile? Perché il sistema di regole e controlli che ormai ha ingoiato questo Paese, che ha solo nella creatività la propria sorte, sembra impedire in ogni modo di esprimerla? Il processo creativo, che dovrebbe essere quello realmente estenuante, è ormai in realtà talmente oppresso da veti, leggi e procedure, da divenire la parte più facile e liberante della produzione culturale. Il 90% del tempo dedicato a queste imprese se ne va in procedure amministrative e regole capestro. 

Un sistema che, ve lo garantisco, il più delle volte fa davvero pensare che non ne valga la pena. La fatica non vale il risultato.

Allora perché fare? Forse perché in alcuni di noi alberga una innata tenacia quasi irredentista, e forse perché è una forma di egoismo anche darle campo. Forse perché si ha la convinzione che agendo si può invertire il corso delle circostanze, o quanto meno resistervi. O forse perché in fondo non fare è terribilmente noioso. Non lo so. 

L’altra sera mentre vedevo il film “Il cattivo poeta”, sugli anni di Gabriele D’Annunzio al Vittoriale, notavo che per i gerarchi fascisti le elargizioni mussoliniane alla dimora del Vate erano una sorta di “contentino” alle velleità del poeta in cambio del suo silenzio sulla politica dell’Asse, che era il fulcro di ogni loro attenzione. L’Asse è fallito, Mussolini impiccato e sepolto e con lui la funesta disastrosa avventura bellica. Ma il Vittoriale no. Splende oggi più che mai, visitato ogni anno da migliaia di persone.

Ecco. La politica passa, l’arte rimane. Lo diceva Giò Ponti: la bellezza è il materiale più duraturo, molto più del vetro, dell’acciaio o del cemento. 

Passerà il Covid, passeranno i green pass, ma sono certo che buona parte di quanto inauguriamo oggi sopravvivrà. Non per sempre magari, o per un sempre umano, uno o due secoli come diceva il Gattopardo, ma sopravvivrà.

La figura dell’intellettuale o dell’uomo di cultura sfinito dal peso della mazzetta dei giornali sotto il braccio è al capolinea. Non ci serve più. Siamo a un bivio. O voltiamo definitivamente verso l’oblio internettiano della comodità, che quasi sempre l’uomo ha barattato a poco prezzo con la libertà, oppure decidiamo che la cultura è azione. L’intellettuale d’azione sembra un motto marinettiano relegato alle edizioni tascabili da due soldi.

Eppure, mai come oggi, fare cultura significa agire. Proprio perché in un sistema che impedisce, vuoi per inerzia vuoi per malafede, fare è un atto di resistenza. E la resistenza vince sempre.

Ma fare da solo non basta. Occorre fare pubblicamente. Fare e fare in modo che si sappia, che si possa partecipare, condividere, vivere una esperienza. Ogni artista se benissimo che l’espressione del proprio talento non basta: parlate con loro e vi diranno che il riconoscimento è un bisogno grande almeno quanto la necessità di esprimersi. Quanto al pubblico, la società ha molto più bisogno di tensioni ideali e di sollecitazioni provocanti che di efficienza, altrimenti diventa un insieme di individui che badano solo alla soddisfazione dei propri impulsi. E come Al Pacino in Ogni maledetta domenica, o sopravvivremo come collettivo o soccomberemo come individui.

I momenti come quello di oggi sono la imprescindibile condizione senza la quale non c’è cultura: una scadenza che obbliga a darsi da fare, una occasione che stimolala creatività, un pubblico che deve giudicare e che deve essere stimolato e nutrito, insomma un rapporto, una esperienza.

Siamo davanti a uno scenario molto nebuloso, dove il rischio della dimenticanza e della distanza eretti a sistema è forse più vicino che in qualunque altra epoca. Forse prevarrà, ma non possiamo negare che la cosa ci spaventa, e che almeno tentare valga la fatica.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

 

Francesco Martelli


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commenti


Annamaria Menta

25 settembre 2021 08:35

"Eppure, mai come oggi, fare cultura significa agire. Proprio perché in un sistema che impedisce, vuoi per inerzia vuoi per malafede, fare è un atto di resistenza. E la resistenza vince sempre.

Ma fare da solo non basta. Occorre fare pubblicamente. Fare e fare in modo che si sappia, che si possa partecipare, condividere, vivere una esperienza."

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