14 marzo 2023

Civiltà e barbarie a Cutro. I pescatori greci di Creta salvarono i soldati italiani in mare, nonostante fossero invasori

Dopo le innumerevoli parole pronunciate in seguito al tragico naufragio sulle spiagge di Cutro, seguite da una riunione del Governo nella località calabra, un proverbio mi risuona in mente in questi giorni: “Il bel tacer non fu mai scritto”, a richiamare la bellezza del silenzio dopo tragedie umane laceranti e inaccettabili. Un’edizione più forbita del popolare: “Tàas, sta ‘n di prim dàn”. Doveroso sarebbe stato portare una corona di fiori sulla spiaggia, fare un minuto di silenzio, porgere condoglianze ai parenti e poi, in silenzio e a capo chino, venire via, a dimostrare che quelle vittime, quei tanti dolori, incancellabili, quei corpi con le loro storie sconosciute meritavano almeno rispetto. Invece nulla di tutto ciò. 

Una cascata di parole e giustificazioni, per mostrare che si è fatto tutto il possibile. Il che sarebbe a dire: “Siamo stati perfetti”, come se la perfezione fosse possibile ni questo mondo e in vicende tanto complesse. In realtà si è limitati ad un ordine ministeriale: "Attenersi scrupolosamente alle indicazioni operative al fine di prevenire l’ingresso illegale di immigrati sul territorio nazionale". A nessuno è venuta in mente la profonda indicazione etica che sta a fondamento dell’art.10, comma 3, della Costituzione Italiana: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”, soprattutto se abbinata ad una norma SOLAS (Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare) sottoscritta dallo Stato Italiano: “il comandante di una nave ha l'obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere - con tutta rapidità - all'assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione”. Non essendo fine giurista, né un azzeccagarbugli, non entro in dettagli interpretativi, ma il senso di queste norme è chiaro per tutti, tanto è vero che il giorno dopo, la Marina Italiana e la Guardia Costiere hanno soccorso e portato in salvo più di un migliaio di persone. Mentre domenica 12 su un altro bacone non soccorso, un’altra tragedia. Le onde che vanno e che vengono, con le loro oscillazioni, non sono solo quelle del Mediterraneo sospinte dal vento, ma anche quelle del comportamento delle autorità italiane. 

Di fronte a tante parole e giustificazioni, mi sono salite in mente le pagine dedicate da una mia amica, Patrizia Larese, giornalista freelance, nel suo bel libro “Accadde a Creta. 1941-1945” (ed. Infinito, 2023), che raccoglie in numerosi viaggi le testimonianze di narratori greci anche più che novantenni, per ricostruire il contesto storico dove si decise il destino di suo padre, e dei soldati prigionieri affondati come lui, in seguito al siluramento del “Petrella” di fronte a Creta. Oltre alla sorte degli altri circa 20.000 meno fortunati naufragati nell’Egeo durante la II Guerra mondiale. Centrinaia di loro si salvarono perché aiutati dai pescatori greci, che non li lasciarono perire in mare, ma li issarono a bordo, li coprirono con coperte calde, li curarono. 

Li soccorsero nonostante ben sapessero che appartenevano all’Esercito italiano che li aveva invasi il 28 ottobre 1940 per ordine di Mussolini e poi negli sbarchi successivi nelle diverse isole dello Ionio e dell’Egeo, e in seguito fecero arrivare i ben più spietati nazisti a Creta. Forse quei pescatori non avevano letto Omero, ma avevano assimilato una cultura che faceva dell’accoglienza e dell’ospitalità punti di forza della loro concezione di vita, della loro cultura atavica. La famosa “legge del mare e dell’ospitalità”. Piccoli uomini con una grande cultura alle spalle. Disumano invece, secondo Omero, si dimostrò Polifemo al quale Ulisse chiese rispetto in nome della legge dell’ospitalità. Al che il gigante si mise a ridere e cominciò a divorare alcuni dei suoi compagni. Anche per questo la sua trocotanza (hubris) venne punita, finendo accecato. Tale è il destino per chi non accoglie l’ospite e viola le leggi dell’umanità, che proibiscono l’antropofagia. 

Secondo Ivo Andric, premio Nobel bosniaco, la più grande invenzione dell’uomo è il ponte: un simbolo di incontro tra soggetti e popoli di rive opposte (rivali). Per Patrizia Larese invece è il faro la più grande invenzione altruistica, costruito non per sé, ma per offrire soccorso ad altri in difficoltà in mezzo al mare: “Adoro i fari, e da velista, provo per loro un affetto quasi reverenziale”. Costruzioni non molto diverse, il ponte e il faro. Simboli di umanizzazione.

E mi è tornato in mente che in questi mesi la mitica figura di Salvatore Todaro (una medaglia d’oro e due d’argento al valor militare), viene rievocata in un film di Edoardo De Angelis con protagonista Pierfrancesco Favino, nel ruolo appunto del Comandante di sommergibili, leggendario eroe dei mari. Mitica figura, in quanto in numerose azioni contro navi nemiche, in pieno Atlantico, si attardò a salvare i nemici naufraghi, beccandosi i rimproveri dei comandanti tedeschi – pare anche dall’ammiraglio Karl Dönitz – secondo i quali quando si è in guerra non bisogna trasformarsi in “buoni samaritani”. Né in “Don Chisciotte del mare”. Al che sembra che il comandate Todaro abbia risposto: “Un comandante tedesco non ha, come me, duemila anni di civiltà alle spalle”. In realtà il Comandante Todaro si sbagliava: gli anni di civiltà alle spalle da citare erano almeno quattromila, se si presta fede ai testi che hanno fondato la civiltà occidentale: la Bibbia e i poemi omerici, dove innumerevoli sono gli esempi di salvataggio di naufraghi e di ospitalità anche per gli sconosciuti.

E’ proprio qui che si apre il divario tra uomini civili e barbari. Il barbaro è colui che è forte, magari più valido guerriero del suo avversario, ma non ha nulla alle spalle: non valori, non civiltà, non tradizioni. Arriva, arraffa, distrugge, uccide, e poi scompare dalla storia. Arriva dal nulla e finisce per sparire nel nulla. Come è capitato, ad esempio, ad Attila con i suoi Unni. Gli uomini civili, al contrario hanno un peso (o una ricchezza) sulle spalle, una tradizione da portare con sé e che li salva anche quando le circostanze li spingerebbero ad essere “feroci”. Avere una cultura alle spalle significa averla ereditata, fatta propria per trasmetterla alle generazioni successive. E’ come nella corsa a staffetta: ogni concorrente prosegue la corsa, il lavoro, prende il “testimone” di chi viene prima e lo consegna, dopo la sua fatica, al corridore successivo. I pescatori greci, il comandante Todaro, hanno compreso le regole della cultura mediterranea: hanno imparato dai predecessori e hanno lasciato a noi la loro eredità. Tuttavia non tutti sono in grado di capire il valore della “testimonianza”: preferiscono comportarsi da “barbari”, non vogliono nulla alle spalle che li condizioni nella loro “tracotanza”.

Abbiamo sentito, o letto, quanto diceva Massimo Recalcati sulla morte, sul lutto, sulla sua elaborazione, nella recente apprezzatissima lezione tenuta al Ponchielli a Cremona. Siamo pieni dei nostri morti, diceva, questi non scompaiono, ma ci accompagnano per sempre. Ci salvano indicandoci una via, o ci perseguitano, perché le morti sono incancellabili. Memoria, dolore e tempo sono la triade per attraversare ogni perdita esistenzialmente significativa, per superare le nostre amnesie e approdare alla “memoria del futuro”, la quale ci consente di passare non alla “nostalgia-rimpianto” di un ritorno impossibile data l’irreversibilità del tempo, ma ad una “nostalgia-gratitudine”. Tale discorso vale anche per quelle morti di Cutro, come quelle di Lampedusa e delle altre migliaia di vittime del Mediterraneo.

In ciò consiste saper gestire l’eredità del passato scomparso, che però non scompare mai. Scrive Recalcati “Sono grato ai miei innumerevoli morti per quello che ho ricevuto; lo porto con me non come una reliquia da ossequiare, ma come qualcosa che attende ancora la sua realizzazione, come un vento di primavera, un vento australe che soffia dal sud”. Anche quei bambini, quelle donne e quegli uomini, i cui cadaveri come i grani della sabbia della clessidra a poco a poco giungono sulle spiagge, implacabili, attendono la realizzazione del loro sogno - che spetta a noi portare a compimento – quello di un mondo in cui l’accoglienza, il soccorso, la pietà, avere un futuro, sia al centro delle regole civili. L’attendono da chi ha ancora una cultura, non dai barbari, che passano loro accanto facendo finta che non siano mai esistiti o ne parlano come fossero “invasori” o “irresponsabili”. Dovrebbero ricordare la fine che fece Polifemo: rimanere ciechi per il resto della vita. 

Carmine Lazzarini


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commenti


Danilo Codazzi

17 marzo 2023 16:10

....................Dal 1979 per vent'anni ho lavorato come tecnico nella Milano da bere , attraversando tutti i periodi craxiani , democristiani, leghisti e via dicendo. La prima cosa che mi veniva chiesta era : dov'è Cremona ?? .................Oggi la tradizione continua, in più un segretario di Fontana di origine cremonese viene silurato da un nuovo consigliere fresco di nomina, che in pompa magna, lo vuole cacciare . Secondo me gli hanno chiesto : ma dov'è Cremona ?? avanti così !!

Angelo Assandri

19 marzo 2023 06:02

Spunti di saggezza e umanità,oltre che di amaro realismo. Sempre più spesso mi sovviene il detto "Mala tempora currunt" al quale però debbo aggiungere"Sed vocantur spes cras". L'umanità come qualità antropologica potrà assopirsi,ma mai esser dichiarata morta