18 aprile 2021

Con la pandemia mi sono riscoperto padre e pastore

La pandemia e la conseguente quarantena hanno stravolto la vita di tutti. Molte persone hanno imparato a lavorare da casa con tutte le difficoltà e le opportunità che ne conseguono, i ragazzi hanno sopportato la fatica della didattica a distanza, le coppie di sposi hanno dovuto fare i conti con una convivenza h 24 che spesso ha messo in crisi l’armonia coniugale, gli anziani hanno avvertito pesantemente la solitudine. E i preti? Anche per loro l’isolamento ha avuto come conseguenza un ripensamento del proprio ministero e della pastorale parrocchiale.

Proprio qualche giorno fa mi sono venuti tra le mani alcuni appunti che avevo scritto un anno fa e che molti avevano condiviso. In essi sostenevo che “mai come queste settimane di pandemia mi sono sentito prete”. In effetti non avendo la preoccupazione di organizzare cene e feste varie, di rifornire la macchina delle granite del bar dell’oratorio, di preoccuparmi che gli impianti funzionassero e i vari ambienti fossero accoglienti e puliti, ho potuto dedicare interamente il tempo a ciò che è peculiare nella mia vocazione di prete. È chiaro che in parrocchia non sono il deus ex machine - il perno su cui tutto gira-: grazie al Cielo, pur vivendo in una piccola comunità di campagna, posso contare su tanti laici che si danno da fare e che mi sollevano da tante preoccupazioni. Ed è chiaro che anche queste incombenze non sono da deprecare o guardare con sufficienza: se c’è da portare fuori la pattumiera o riempire di lattine il frigo dell’oratorio lo si fa e lo si fa volentieri, però spesso queste attività assorbono così tanto tempo da impedire al prete di esercitare quelle funzioni che gli sono proprie e che nessun altro può assolvere!

Non è un mistero che la gente giudichi il sacerdote soprattutto sulle sue capacità aggregative e di animazione, su come organizza la sagra del paese o la gita con relativa mangiata sul lago o il Grest che ogni anno che passa deve essere più lungo, con sempre più servizi, più psichedelico e accattivante. Che debba essere un uomo capace di relazioni questo è scontato, ma che sappia, con la stessa efficacia ed entusiasmo: essere giocoso con i più piccoli, dinamico e compiacente con gli adolescenti, ricco di esperienza e sapiente con gli adulti, preparato con le coppie in crisi, amorevole e paziente con gli anziani… beh è davvero un’esperienza titanica. Eppure per molti deve essere capace di fare tutto e deve avere un efficace rapporto con tutti!

D’altra parte questa è la mentalità dominante: si è assai accondiscendenti con sé stessi, ma assai severi con gli altri, e il sacerdote, così come ogni altra figura pubblica, è sempre nel mirino dei giudizi. E i giudizi sono sempre molto mondani! Da qui spesso nascono certe crisi d’identità del sacerdote, che quasi sempre si risolvono grazie ad una sana e robusta vita spirituale, ma che a volte portano ad una chiusura e ad un irrigidimento pastorale e dottrinale che non fanno bene a nessuno.

Certo è che se tra il Popolo di Dio si cominciasse a sentire dire “Quel sacerdote confessa proprio bene”, oppure “la sua predicazione è davvero efficace” o ancora “è proprio bravo perché mi ha insegnato a pregare” sarebbe davvero una grande conquista! Purtroppo si tende sempre di più a mondanizzare il prete perché così da meno fastidio, non inchioda alle vere responsabilità cristiane, non smaschera una fede troppo accondiscendente con sé stessi. Meglio un prete che mangia, beve e ride (e io purtroppo sono fra questi), ad uno che prega, fa penitenza, si preoccupa della salvezza eterna delle anime… ma che noia un prete così!

Sostenevo l’anno passato e dopo 12 mesi ne sono più convinto che questa forzata prigionia mi ha permesso di riscoprire il mio ruolo più “spirituale” (che, si badi bene, non vuol dire disincarnato dalla vita): ho avuto più tempo per meditare la Parola di Dio prima per me se stesso e poi per la mia gente, ho avuto più tempo da dedicare ai rapporti umani (quante volte gli apparati e le organizzazioni ci hanno fatto sacrificare la relazione con l’altro…), ho avuto più tempo per uscire per le strade e portare un po’ di conforto, attraverso la preghiera e dei semplici gesti di devozione popolare, alle persone costrette nelle loro abitazioni. Mi sono riscoperto, con tutti i miei limiti e le mie fragilità, padre e pastore.

Certo, anche io ho voglia, come tutti, di riaprire l’oratorio, di dare a ragazzi la possibilità di correre e sfogarsi con quelle belle e interminabili partite di calcio, di offrire agli anziani uno spazio di socialità e di gioco delle carte, agli adulti l’occasione di sorbire in compagnia quell’ottima crema al caffè del nostro bar, ma allo stesso tempo debbo confessare che sarà dura tornare ad una vita pastorale complicata e farraginosa come quella di prima.

Sapientemente i Vescovi italiani ci chiedono di cogliere la sfida della pandemia per compiere un discernimento pastorale che elimini finalmente sovrastrutture inutili, attività ormai desuete, quell’andazzo caratterizzato da quel “si è sempre fatto così” tanto irritante e infecondo. Ci vuole coraggio sia da parte dei preti sia da parte dei laici. La nascita delle unità pastorali, che va fatta con tanta prudenza e gradualità (si tratta davvero di passaggi epocali!), contribuirà certamente a dare un nuovo volto alla pastorale con un maggior protagonismo dei laici e una essenzialità delle proposte pastorali.

Ma credo che tutto debba ripartire da una riscoperta di ciò che caratterizza l’identità e il ministero del prete. Gesù affida ai suoi discepoli tre compiti: predicare il Vangelo, lottare contro il male che affligge il cuore dell’uomo (scacciare i demoni), assistere e pregare per gli ammalati. Solo tre compiti, ma che compiti!

Compiti che vanno declinati nell’oggi: il Vangelo lo si annuncia favorendo le relazioni tra le persone e cementando le amicizie tra i ragazzi (cene, feste, Grest…), ma attenzione sempre a scambiare il fine con il mezzo. E attenzione che le strutture non ingabbino così tanto il presbitero da non permettergli di andare incontro ai lontani! Il fine ultimo è portare tutte le persone a Cristo e salvare la loro anima. Questo dovrebbe essere l’obiettivo ultimo di ogni attività e programma pastorale, questo dovrebbe essere chiaro a chi è a fianco del prete e collabora, giorno per giorno, nel costruire una comunità viva e appetibile per gli indifferenti! Va bene la mangiata… ma se mi porta solo ad ingrassare… anche no!

Claudio Rasoli


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