Tanto tuonò che piovve. E fu guerra totale. Chi interpreta ogni parola spesa a favore della pace come indiretta indulgenza verso Putin avrà ovviamente da ridire su un esordio così palesemente pacifico. Pacifico. Non pacifista. Nulla di più lontano dall’equivoco folkloreideologico dei pacifisti a senso unico mossi da viscerale odio verso l’America più che da autentico amore per la pace. Tant’è che in giro ne vediamo pochini. Zitti e…Mosca.
Mi limito dunque a osservare che a quasi due mesi dalla scellerata aggressione all’Ucraina in quella borsa valori infallibilmente profetica che è il linguaggio, la parola guerra rapidamente prende quota e s’impone mentre la parola pace è in sostanziale caduta libera. Ursula von der Leyen in visita a Kiev, s’è spesa in un augurale pronostico: in questa guerra vincerà l’Ucraina. Il derby calcistico è dunque partito, le tifoserie posizionate e naturalmente si accettano scommesse.
Ma veniamo a casa nostra: Enrico Letta, per la serie ‘vai dove ti porta il cuore’, non lesina gli effetti speciali e dichiara a nome personale e degli italiani tutti che siamo pronti a rinunciare qui, ora, subito al gas russo. In fondo, che un sistema produttivo falcidiato da quindici anni di negativa congiuntura economica e due anni di pandemia, possa definitivamente soccombere, e noi con lui, non sarebbe che duro ma inevitabile inconveniente collaterale. Dopo di che neppure si potrà più dire che siamo alla canna del gas. Magari! Ma nemmeno il premier Draghi, in verità, si risparmia in intransigenza atlantista ‘costi quel che costi’. Un nuovo ‘whatever it takes’ dunque. Ma chissà perché in inglese suonava meglio. “Gli italiani – ha ammonito in una dichiarazione che conta ormai più esegeti della Divina Commedia – dovranno scegliere fra la pace e il condizionatore acceso”. Col che ha ufficialmente decretato la sospensione a tempo indeterminato della società dei consumi e il nostro ingresso in un’economia di guerra.
E rieccoci alla guerra, citata, evocata e quasi fatalisticamente assunta come l’inevitabile approdo di un conflitto locale su cui si sta dirigendo una montagna di materiale bellico non più solo difensivo ma ormai anche offensivo. Il premier britannico, in particolare, pare sguazzarci con morboso entusiasmo. Fece lo stesso sfidando il covid senza vaccino. Il virus si vendicò contagiandolo di brutto. In extremis fu tirato su per il civettuolo caschetto biondo cenere. Ma gladiatore era e resta. Altro che conflitto a bassa intensità. Europa ed America ci sono dentro fino al collo mentre Putin, con abile depistaggio, oscilla fra minimalismo – vinta la partita del Donbas la guerra finisce – e minacce di scontro globale con l’Occidente. In effetti appare sempre più credibile che il despota russo, in balìa del devastante marasma ormonale che l’ha convertito dal biblico Lucifero buono in quello cattivo, voglia arrivare allo scontro con la Nato per interposta Ucraina. Resta all’abilità e alla prudenza del vecchio continente evitare che la cosa diventi quel che è sul punto di diventare: una guerra fra Russia e America per interposta Europa.
Impossibile tuttavia non registrare che nel quadro sommariamente richiamato c’è un assente, un grande assente. Mancano le opinioni pubbliche, mancano i popoli europei. Tocca e a maggior ragione toccherà proprio a loro saldare, in ogni senso, il conto di questa immane pazzia. E tuttavia cosa pensino e quali opinioni abbiano in merito pare oggetto, ai piani alti del sistema, del più totale disinteresse. Illuminante indizio di quale sia il residuale peso specifico di parole come democrazia o autodeterminazione dei popoli persino in quella ‘terra promessa’ di libertà e giustizia che è il nostro amato Occidente. Basta buttare un occhio ai numeri relativi alla crescita delle nostre vecchie e nuove povertà per dubitare che la vera alternativa per milioni di italiani sia quella fra la pace e il condizionatore acceso. Più verosimile che sia quella fra la pace e il pane quotidiano, non il superfluo dunque, ma il necessario. Il che destina ogni appello al sacrificio in nome dei valori dell’Occidente a un precario equilibrio fra nobile postulato di principio ed elitaria estraneità alle effettive condizioni del Paese reale.
Qualche accento richiama la famosa ‘decrescita felice’ ma in realtà si tratta di tutt’altro. Quella sarebbe stata, a pianeta razziato e massacrato, una discutibile ma libera scelta in favore dello sviluppo sostenibile. Quella che s’annuncia è invece la decrescita forzata e per nulla felice che sta rimettendo a regime le centrali a carbone. E tanto basti. In termini di messaggio sociale ‘rieducativo’ rivolto a un popolo di spendaccioni è un’epocale ‘indietro tutta’ . Dal secondo dopoguerra la pedagogia rivolta agli italiani è stata comprate, spendete, assicurate un robusto mercato interno alla nostra produzione. Dal soddisfacimento dei bisogni primari siamo arrivati passo dopo passo a un’industria pubblicitaria ridotta a febbrile fabbrica di bisogni indotti: consumo ‘ergo sum’. Più che partecipi e azionisti dei famosi valori dell’Occidente su cui adesso si chiede di far quadrato ci siamo sentiti partecipi, azionisti e forse complici di un gigantesco e inarrestabile baraccone consumistico. In fondo fu proprio il crollo del sistema sovietico, nel famoso 1989, a fornirci la prova quasi teologica che il modello economico sociale del cosiddetto comunismo reale era condannato ormai anche dalla storia oltre che, ovviamente, da Dio. Mentre noi, vincenti per sempre, potevamo finalmente sederci sulla vittoria e goderci la vita. Il che abbiamo fatto. Senonché, scomparso l’avversario, afflosciata la tensione ideologica, s’è indebolita anche la sensibilità politico istituzionale che doveva metterci in guardia dall’intraprendere pericolose intimità commerciali con partner di dubbia natura.
Romano Prodi, antico cantore della nostra provvidenziale liaison mercantile con la Cina, interpellato sulla situazione è apparso penosamente afasico: non so, non capisco, questo è un altro mondo.
Già, ma chi l’ha costruito? Gigantismo economico, nanismo politico: di questo soffriamo. Ora, per renderci accettabile l’amaro calice, ecco che dai più impensabili pulpiti si racconta quant’è nobile tirare la cinghia: meglio liberi che benestanti, asceti che materialisti, guerrieri che bamboccioni. Il messaggio attecchirà? Subiremo il fascino epico del celebre “Suoni la tromba e impavido io pugnerò da forte. Bello affrontar la morte gridando libertà”?
Vorrei ricordare che tutte le guerre italiane, a partire dal Risorgimento, hanno sempre contato su un minimo di condivisione ‘motivazionale’ della popolazione. Vuoi perché la posta in palio era attraente e ci si illudeva di uscirne più ricchi. Vuoi perché nel vivo del nostro tessuto circolavano ancora valori come patria, nazione, indipendenza, libertà e onore. Roba che, per dirla con la dovuta crudezza, dorme da anni nei libri di storia. Le nostre società hanno subìto un’autentica pedagogia della smemoratezza, utile a trasformarci nel gregge di docili consumatori, privi di spigolose resistenze
libertarie e identitarie, di cui ha bisogno il mercato globale per procedere nella sua devastante mercificazione dei valori. I francesi, alle prese col voto, l’hanno in fondo amabilmente confessato: più che per le sorti dell’Ucraina sono in ansia per quelle del loro potere d’acquisto. Giusto? Sbagliato? Umano, direi. Nessun giudizio di valore, solo giudizi di fatto.
vittorianozanolli.it
commenti
Dimitri Musafia
22 aprile 2022 10:31
"Whatever it takes" suona meglio di "costi quel che costi" perché quest'ultimo non è la traduzione letterale del primo, molto più incisivo.