Cosa si mangiava una volta: una appendice rinascimentale
L’ editoriale di settimana scorsa ha riscosso un notevole successo, dovuto principalmente alla sorpresa suscitata in molti lettori dalla assenza, rivelata dai menù d'archivio, del risotto allo zafferano e della cotoletta nei ristoranti milanesi di inizio ‘900. Come alcuni esperti lettori hanno commentato, la conferma che la cucina ‘tradizionale’ non esiste e che i gusti cambiano radicalmente al passare dei decenni. Ciò che per noi è scontato nella cucina non lo era per niente nei decenni precedenti, e se andiamo ancora più indietro scopriamo gusti e pietanze che ci paiono veramente se non inconcepibili quantomeno improbabili.
Queste piccole riflessioni mi hanno riportato alla mente una piccola ricerca d'archivio nella mia amatissima Toscana, terra che da anni ho scelto come mio buen retiro, e i cui Archivi grondano racconti e dettagli della sfarzosa cucina che gli aristocratici toscani iniziarono ad offrire ai propri ospiti dal pieno Rinascimento e che divennero poi un vero e proprio rito abitudinario durante il Barocco.
Obiettivo dei pranzi era in realtà non la cucina in sé ma offrire un grande spettacolo e gareggiare in prestigio e ricchezze con i propri pari, in una continua giostra di pranzi infiniti il cui tradizionale epilogo erano il diabete e la gotta, due flagelli alimentari che sterminarono più nobili delle guerre tra Signorie.
Il primo e più memorabile di questi incredibili banchetti fu offerto ai Fiorentini dal grande Cosimo de’ Medici, astutissimo banchiere e straordinario collezionista d'arte, nonché fondatore della dinastia che ha fatto un pezzo di storia della civiltà. Siamo nel 1439, e si sta svolgendo uno dei più importanti Concilii ecumenici della Chiesa, che ha come obiettivo tentare la riconciliazione tra Chiesa d'Occidente e Chiesa d'Oriente. Il Concilio prende avvio a Ferrara ma di lì viene spostato a Firenze a causa di una pestilenza. È l'occasione che Cosimo attendeva per dare massimo lustro alla sua Casata e alla sua Firenze: offrire il più memorabile dei ricevimenti al Papa e ai vescovi di mezzo mondo, gli uomini più potenti e più istruiti del tempo.
Il pranzo passerà alla Storia, se non per aver fallito nel riconciliare le due Chiese, almeno per aver dato il nome a due piatti tipici della cucina Toscana, grazie dall'entusiasmo del Cardinale bizantino Bessarione, il quale gradí a tal punto la carne del carrello di maiale arrosto da esclamare in greco “Arista!” e cioè ‘ottima!” lasciando per sempre quel nome al piatto succulento che ancor oggi si chiama appunto àrista di maiale. Il pranzo fu di tale grandezza che perfino uno dei più famosi vini del mondo vi prese nome: alla vista di quel vino dolce e color del miele, il Bessarione esclamò “Santos !” ovvero sia ‘biondo” , e da allora i toscani chiamarono Vin Santo uno dei loro prodotti più noti nel mondo.
Al di là di questi divertenti episodi linguistici, due erano le caratteristiche tipiche di quella gastronomia : lo sfarzo delle preparazioni e il sapore agrodolce.
Sullo sfarzo dei ricevimenti già abbiamo accennato quanto nel tempo divenissero motivo di esibizione di potere e ricchezza: si narra addirittura che un intero banchetto venisse allestito nella forma della facciata del Battistero di Firenze, con tanto di blocchi di parmigiano intarsiati come capitelli e colonne di prosciutto crudo a imitare il rosso marmo di porfido, e con al centro un gigantesco leggio di canti gregoriani fatto interamente di fette di arrosti a guisa di pagine di libro.
Si narra di giganteschi alberi finti a cui erano appese le pietanze più prelibate, in modo che i commensali potessero coglierle dall’albero come Adamo e Eva nel Paradiso terrestre. E come ben testimoniato da alcuni cartigli di Casa de’ Martelli, in Toscana esplose una vera e propria mania del ricamo di sconfinate tovaglie e giganteschi tovaglioli, invenzione che dobbiamo al genio di Leonardo durante la sua permanenza nella Milano di Ludovico il Moro…Prima di allora i commensali si pulivano le dita nelle pellicce dei cani che sbocconcellavano sotto i tavoli mentre il Signore lo faceva nei capelli del suo giullare …e non aggiungo altro su quanto il Mondo intero deve alla Corte del Moro.
Gli enormi saloni dei banchetti erano continuamente inondati di ogni genere di pesantissimi profumi che servivano a coprire la puzza insopportabile di corpi e vesti che non venivano praticamente mai lavati, in un misto letale di profumi soverchianti e puzze insopportabili il cui esito era una cucina dai sapori oltremodo fortissimi, ché altrimenti nessuno avrebbe sentito il gusto giacché soverchiato dagli odori.
Ed ecco che allora trionfavano piatti enormi di ogni genere di cibi mescolati tra loro, per noi di gusto quasi ributtante. I pasticci di carni e pesci erano in assoluto le pietanze più diffuse, miscele di carni e pesci stracotti e tritati ricoperti di spesse croste di pani zuccherati al riso e al latte dalle forme più incredibili, detti Biancomangiare.
E poi le infinite matrioske di selvaggine farcite le une dentro alle altre: la pernice dentro al fagiano dentro al maialino dentro al cinghiale intero magari infilato dentro a un enorme bue, cotti per ore e glassati con più strati di un violino di Stradivari.
Non posso non citare in ultimo il famigerato “Cappon magro”: un bel cappone dalla gialla pelle bollito asciutto e sano servito magari col suo brodo ? Ma nemmeno per idea…! Un trionfo a più piani di ogni genere di pesci di mare e crostacei adagiati su distese di pani pepati e pan di zenzero, impasti pieni di miele e frutti canditi …
Insomma gli archivi ci raccontano (e ci confermano) che anche in cucina le sorprese sono infinite.
(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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