16 dicembre 2025

Cremona, gli ultimi che non vediamo: donne e uomini nell’ombra. Un appello alle istituzioni e alla coscienza collettiva

Cremona è una città elegante, fatta di pietre antiche e musica che ha attraversato i secoli. Da molti anni, però, la mia vita si divide tra Cremona e Milano, due realtà diverse ma sempre più accomunate da fragilità che un tempo sembravano lontane. Eppure, accanto alla bellezza, cresce una frattura silenziosa. È la distanza tra chi ce la fa e chi non ce la fa più. Gli “ultimi”, come li definisce una parola che pesa, aumentano anche qui, nel capoluogo e nel cremonese: persone che scivolano ai margini per mille motivi diversi, ma con un destino comune, l’invisibilità.

Negli ultimi anni i servizi sociali e il volontariato locale raccontano di un incremento costante delle richieste di aiuto: famiglie monoreddito che non reggono il costo della vita, anziani soli con pensioni insufficienti, donne che fuggono da relazioni violente, lavoratori che hanno perso l’impiego e con esso la fiducia. Non sono numeri astratti: sono volti che incontriamo sotto i portici, nelle stazioni, davanti ai supermercati, o semplicemente nei palazzi accanto ai nostri. 

«Non chiedo elemosina, chiedo di tornare a sentirmi una persona», dice Marco, 52 anni, ex operaio, oggi senza casa dopo una serie di lavori a termine mai trasformati in stabilità. Dorme dove può, custodendo con cura una cartellina con i documenti: «È l’ultima cosa che mi fa sentire ancora dentro la società».

C’è poi Anna, madre sola di due figli, che si vergogna a raccontare come il carrello della spesa si sia fatto sempre più leggero, «Lavoro, ma non basta. La dignità non dovrebbe essere un lusso».

Secondo le organizzazioni caritative del territorio, il profilo della povertà è cambiato: non riguarda più soltanto chi è sempre stato fragile, ma colpisce nuove fasce della popolazione.

Milano me lo ha insegnato molto prima che questo fenomeno diventasse evidente anche a Cremona. Ricordo con chiarezza una scena che si ripeteva ogni mattina, sempre uguale e sempre diversa, a due passi dal maestoso Duomo. Erano le 7.20 quando vedevo quell’uomo piegare con attenzione ciò che durante la notte era stato il suo giaciglio. Ogni gesto era misurato, rispettoso, come se stesse sistemando una casa invisibile. Poi si allontanava, con passo discreto, verso un grande centro commerciale che apriva le porte delle proprie toilette a chi non aveva altro se non il bisogno di lavarsi, di rimettersi in piedi, di sentirsi ancora parte del mondo.

E poco più in là, in altre mattine milanesi, un’altra immagine colpiva come uno schiaffo silenzioso: uomini separati, in giacca e cravatta, in fila davanti all’Opera San Francesco per i Poveri. Volti stanchi, cartelle di lavoro ormai vuote, storie di vite scivolate via senza rumore. Non chiedevano carità, ma un pasto caldo, un luogo dove essere accolti senza giudizio. Scene che raccontano meglio di qualunque statistica come la povertà oggi non abbia più un’unica faccia. È la povertà che arriva all’improvviso, quella che non fa rumore, che si nasconde dietro una porta chiusa.

Da cittadina che ama profondamente questa città, sento un dolore al cuore ogni volta che i miei occhi diventano testimoni del degrado, materiale e morale. Un degrado che non può e non deve essere semplificato o raccontato a metà: tra gli ultimi ci sono stranieri senza fissa dimora, persone affette da dipendenze, uomini e donne che vivono una condizione di marginalità estrema e, talvolta, anche chi delinque. Realtà diverse, complesse, che non vanno confuse ma nemmeno ignorate. Non amo le polemiche. Non cerco colpevoli facili. Ma non posso tacere.

Siamo tutti responsabili quando ci giriamo dall’altra parte e fingiamo di non vedere. È una situazione che abbiamo più volte esposto e documentato anche presso l’ospedale di Cremona, dove il disagio sociale si manifesta in modo evidente e talvolta drammatico. Una condizione grave per chi la vive in prima persona, ma altrettanto grave per chi ogni giorno si reca sul proprio posto di lavoro o per chi è un malato e ha il diritto di essere curato in un ambiente sicuro, rispettoso, tutelato. Siamo responsabili quando buttiamo l’immondizia per strada e ce ne freghiamo, quando difendiamo l’indifendibile — compresa la maleducazione — scambiandola per libertà. La qualità di una comunità si misura anche da questi gesti minimi, apparentemente insignificanti a partire dal lasciare attraversare i pedoni sugli attraversamenti pedonali, piuttosto che rispettando il proprio turno in una qualsiasi fila.

Il mio animo da combattente coltiva fiducia e speranza, ma questo non mi rende cieca né mi trasforma in Alice nel Paese delle Meraviglie. Oggi, racconti simili a quelli milanesi si trovano anche online, nei forum e nei gruppi Facebook dedicati alla vita quotidiana: testimonianze condivise da cittadini che osservano, raccontano, si interrogano. Tutto questo non è più sconosciuto a quella che un tempo era il gioiello discreto di Cremona. La nostra società sta cambiando, e non sempre in meglio. Serve uno scatto di responsabilità collettiva.

Per questo rivolgo un appello, sincero e rispettoso, a tutte le istituzioni: al Comune, alla Provincia, alla Regione, alle realtà sanitarie, educative e sociali. Questo scritto non vuole essere una sterile polemica, ma un campanello d’allarme. Come singolo individuo posso fare molto poco. Serve uno sguardo collettivo, unione di intenti, la capacità di riconoscersi parte di una stessa comunità. Servono politiche concrete e coordinate, investimenti sul welfare di prossimità, ascolto vero di chi opera sul campo. Ma serve anche una città che si riconosca comunità.

Nel tempo del santo Natale, mentre le luci adornano le vie e le vetrine, speriamo che la luce della verità e della speranza illumini anche le coscienze. Perché senza un cambiamento reale, è difficile immaginare un progresso. La storia ce lo insegna: i grandi imperi hanno conosciuto un picco di grandezza prima di toccare il fondo.

Cremona può scegliere un’altra strada. Può decidere di non lasciare indietro nessuno. Gli ultimi non chiedono miracoli, ma attenzione, rispetto, dignità. E, soprattutto, di essere visti.

 

Beatrice Ponzoni


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