Cremona, se la pretesa modernità è una moneta fuori corso
Un Matteo Salvini in tambureggiante tour elettorale ha recato ai cremonesi la buona novella: l’autostrada Cremona Mantova dispone di un capitale privato che, sensibile ai risvolti finanziari e industriali dell’affare, coprirà i costi dei famosi otto chilometri mancanti. E dunque l’infrastruttura si farà. Sollievo e tripudio di un mondo politico amministrativo che, come sempre perso in narcisistica contemplazione della propria mediocrità, brinda al raggiunto traguardo. E a questo punto il sospetto si converte in certezza. La locale classe dirigente pur dotata, come i fatti dimostrano, di autonoma e originale inventiva, non fa tutto da sola. Un faro, un celebre modello, dall’alto la guida e ispira nelle scelte strategiche più delicate. E il suo nome è Attila. E’ infatti noto come Cremona sia da decenni soffocata nelle mortali spire di una specie di ‘boa constrictor’ che si chiama inquinamento. Il che risulta dall’infelice combinazione fra posizione geografica, sprofondata nell’immobilità basso padana, e scelte umane da anni puntigliosamente impegnate, si direbbe, a potenziare e moltiplicare le fonti inquinanti.
Tutti gli attori in commedia stanno offrendo un imbarazzante balletto scaricabarile. La comunità locale assiste con fatalistica rassegnazione. Se l’autostrada si farà, Cremona subirà un ulteriore giro di vite nella morsa che la sta soffocando. Conosciamo il mondo e i suoi appetiti primari. Nessuna meraviglia dunque che discutibili operazioni di affarismo pubblico-privato siano presentate come capolavori strategici per la promozione del territorio. L’obiezione è pertanto di altra natura. Si vogliono fare gli affari dei tre o quattro potentati che, non senza benemerenze oggettive, di fatto detengono in ogni senso le chiavi della città e del suo futuro? Fateli. Moltiplicate autostrade e trasporto su gomma e mandate in malora i collegamenti ferroviari, inventatevi la succulenta torta di un ospedalino nuovo di zecca, fatevi un polo logistico che non darà lavoro ai cremonesi ma a stranieri che, avuto posto e pasto, legittimamente pretenderanno casa, consumate suolo con voracità che ha pochi eguali in Italia, tenetevi un vecchio inceneritore utile al business dei rifiuti, violate il verde pubblico quand’anche soggetto a vincolo ambientale, abbandonate al degrado preziosi volumi di edilizia pubblica per poi clonarla da un’altra parte, divorate per le esigenze del tracciato autostradale terreni agricoli produttivi. Ma, per favore, non chiamatelo progresso. Se il dizionario storico non ha subito un epocale ribaltone, la parola progresso si applica a cose che non peggiorano ma al contrario migliorano la vita collettiva innalzandola a migliori standard qualitativi.
Resta oscuro dove e in cosa stia migliorando la qualità di vita dei cremonesi. Bastonati nella salute: epidemia di tumori da inquinamento. Bastonati nel portafoglio: operazioni in perdita come la svendita di Aem per entrare, da fanalino di coda, in una discutibilissima cordata di milanesi e bresciani. Di modesto conforto suona il recente annuncio di un’imminente ‘svolta green’: qualche bus a zero emissioni e una moltiplicazione di monopattini elettrici che più che abbattere polveri sottili abbatterà innocui pedoni in legittimo transito sui marciapiedi cittadini. Questa specie di ‘progresso’ impropriamente sventolato ha un retrogusto culturalmente anacronistico. E’ fermo, direi, alla prima metà del ‘900, quando era sensato chiamare ‘progresso’ la moltiplicazione di ciminiere, fabbriche, distretti industriali e trasporto su gomma che effettivamente stava segnando il nostro passaggio da una povera società contadina preda di fame, malattie e analfabetismo all’Italia del benessere che avrebbe assaltato l’autostrada del Sole con milioni di utilitarie in spensierata fuga vacanziera. Ma quell’epopea è conclusa. E il suo bilancio, complesso equilibrio di grandi luci e non poche ombre, è ormai consegnato alla storia. Il quadro è radicalmente cambiato, tutt’altra la scala di valori primari da difendere e urgenze da soddisfare. Tant’è che la parola progresso è ormai irreversibilmente vincolata a quel concetto di sviluppo sostenibile che dovrebbe diventare punto focale di grandi convergenze operative: scienza, tecnica, capitali finanziari, industriali e agrari, volontà politica e amministrativa, ritrovato coraggio autodifensivo di una comunità locale che da troppi decenni riveste il ruolo di ‘Bella addormentata’. Una bella addormentata che, a differenza della celebre fiaba, nessun principe vuole svegliare per l’ovvia ragione che gli fa più comodo dormiente che desta.
Errare è umano, perseverare è diabolico. Ma Cremona persevera in questa sconcertante guida contromano. Il mondo s’interroga, non senza sterili estremismi, su ipotesi di ‘decrescita felice’, parla di economia circolare, studia come risparmiare suolo, potenziare polmoni verdi, riforestare le cinture urbane, mantenere in condizioni di efficienza l’esistente per non rottamarlo e dover divorare ulteriori risorse. E Cremona cosa fa? Fa l’esatto contrario, senza accorgersi che il tipo di modernità che pretende d’interpretare è moneta fuori corso. Come i rivoluzionari dilettanti del film di Moretti che aspettavano il sol dell’avvenire che non sorgeva mai. In realtà era già sorto. E se ne sarebbero accorti se non avessero tenuto per ore lo sguardo puntato nella direzione sbagliata.
Certo non giova alle sorti presenti e future di Cremona la crisi di identità in cui palesemente versa quel comparto agrario che tuttavia resta punto di forza dell’economia locale e mantiene rango di classe dirigente. La Libera è in vistosa caduta libera. Paga il salato prezzo di decenni di miopi corporativismi e distruttivi veti ma anche del terremoto che in ogni senso l’ha investita: persecutoria ostilità di ottusi burocrati comunitari, sconvolgimento climatico e siccità, destabilizzanti contraccolpi dell’acceso confronto sulle biotecnologie nell’agroalimentare che, a parte illuminate avanguardie, disorientata la maggioranza di un tranquillo ceto sentimentalmente fermo al pascoliano ‘T’amo pio bove’.
Quale sia il male oscuro che, pur con fasi alterne, spolpa dall’interno questa città, le fa perdere colpi rispetto a più dinamiche aree del territorio provinciale e la tiene, fin dai tempi di Amoco, impiccata alla secca alternativa fra lavoro e salute, è domanda complessa. E certo non si risolve col semplicistico sport di sparare sempre e solo sul manovratore. Evidenti le responsabilità del retroterra sociale e civile. Un politologo forse la racconterebbe così: Cremona subisce da tempo le scelte di un ceto che esercita un comando qualitativamente inadeguato ad assumere i contorni di una convincente e carismatica egemonia. La quale è un mix di cultura concreta, capacità interpretativa del momento storico e delle sue potenzialità, coraggio di imprimere una rotta che, esprimendo l’autentica vocazione identitaria del territorio, ne metta in corsa le energie latenti finalmente scovandone la carta vincente. E su quella investa con coerente lucidità strategica. Solo questo fa di un potere mediocremente praticato una riconosciuta e convincente leadership in grado di catturare attivo consenso. Ma da noi politica e società convivono da troppo tempo come ‘separati in casa’. Cremona ha qualche padrone, molti padroncini. Ma non una leadership nel senso forte e pieno della parola. E che può fare in queste condizioni? Navigare a vista e galleggiare fra interessi corporativi che, quand’anche tirino in ballo il famoso ‘progresso’, raramente si convertono in autentico bene comune. Tutto qui.
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commenti
Giuseppe Zagheni
5 febbraio 2023 11:54
Comincio a pensare che il cambiamento climatico stia producendo strani effetti su questo paese...Uno è la notizia che Renzi Matteo debba risarcire Marco Travaglio dopo averlo denunciato per diffamazione ,si trova obbligato lui a risarcire.
Due la sua lista di tutti i problemi ed inefficienze che assillano questa provincia Purtroppo ci si accorge solo ora di come una dissennata idea progresso ( tipica dei cosiddetti moderati) abbia portato all'impasse non solo la provincia, ma anche il paese