Cristo non ha bisogno di battitori liberi o di imprenditori del sacro!
Viviamo in una società dalle crescenti spinte individualistiche: ormai tutti gli atti umani – la nascita, le scelte fondamentali della vita, la morte – sono sempre più vissuti in una dimensione intimistica, senza più nessun risvolto sociale, senza più nessuna ricaduta comunitaria. Fino adesso la celebrazione del battesimo ha “tenuto” perché ancora considerato un rito “sociale”, una felice occasione per riunione la famiglia per condividere almeno l’arrivo di un nuovo membro. Molto meno “tiene” il matrimonio: la società fluida non consente più legami troppo stretti e l’amore per essere vero deve colorarsi quasi esclusivamente di spontaneità, libertà, se non addirittura di istintività ed estemporaneità! Anche il rapporto con la morte sta cambiando grandemente: se un tempo era un evento con lente e arcaiche ritualità, oggi deve essere celebrato il più velocemente possibile; nei paesi di campagna il fenomeno non è ancora così preoccupante, ma nelle grandi città il “saluto al defunto” è praticamente compresso nella tumulazione della salma al cimitero, senza più camere ardenti, senza più liturgie funebri, senza più condivisione del dolore! Significativo è l’aumento delle richieste di conservare le ceneri dei proprio congiunti in casa e non in un luogo di comunità, come è appunto il cimitero. Non è più dato a parenti e amici di soffermarsi sulle tombe per pregare: “il morto è mio e me lo gestisco io!”.
E di esempi di questa crisi della dimensione sociale ve ne sono moltissimi: il rifiuto convinto e motivato dell’autorità, la leggerezza con cui si evade le tasse, la fuga dal volontariato e dall’impegno politico e civile, la rivendicazione violenta solo dei diritti, l’indifferenza nei confronti delle fasce più deboli – soprattutto gli anziani -, senza dimenticare la perdita della dimensione vocazionale del lavoro, visto solo come fonte di reddito e non come contributo alla costruzione del bene comune.
Inoltre l’esponenziale aumento dei social network ha ancora di più accresciuto l’individualismo, tanto che adesso le relazioni tra le persone avvengono quasi esclusivamente attraverso uno schermo, una tastiera, un mouse… non ci si guarda più negli occhi, non si scruta più il volto, non si gode più di un abbraccio: quel lato “carnale” del rapporto - che è così importante perché siamo fatti di corpo e di anima, uniti inscindibilmente – si sta irrimediabilmente perdendo: il virtuale ha sconfitto il reale! Ci si sfiora ma non ci si incontra! Bene ha fatto la Santa Sede ad indicare tra i gesti penitenziali per ottenere l’indulgenza nel prossimo Giubileo l’astensione per una giornata intera da futili distrazioni come i social network o i media in generale. Occorre tornare a vivere per le strade, ad incrociare nuovamente le persone accentando anche la fatica del confronto diretto, senza diaframmi difensivi!
Queste spinte individualistico-intimistiche hanno enormi ricadute negative sulla diffusione e comprensione del Vangelo: quello comunitario, infatti, è un aspetto imprescindibile dell’esperienza cristiana. Sentirsi parte di un popolo dove le scelte di ciascuno – positive o negative che siano – hanno un riverbero nella vita di tutti è sicuramente una delle sfide più grandi che i discepoli di Cristo sono chiamati a vivere, a testimoniare, a spiegare! Il reale e il Vangelo sono due “cose” che non sono a disposizione dell’uomo: vanno accolte così come sono e accettate nella loro interezza. Riconoscere questo significa accettare la propria “creaturalità”.
Penso, soprattutto, alla dimensione salvifica della sofferenza: quanto è difficile oggi far capire che il proprio dolore, la propria malattia, i tanti disagi che l’esistenza comporta, possono essere uniti al grande sacrificio di Cristo in Croce e offerti per il bene di tutti, per una umanizzazione più convinta ed efficace del mondo! La sofferenza è l’unico dono “proprio” che l’uomo può presentare a Dio, perché tutto viene dal Padre – si dice mirabilmente in una preghiera liturgica “noi ti offriamo le cose che tu stesso ci hai dato…” –, ma non il dolore, perché Dio non l’ha creato né pensato! Offrire le proprie sofferenze significa in ultima analisi “amare” in maniera totale e assoluta e quindi, quando un malato presenta a Dio il proprio dolore, non fa altro che unirsi a quell’amore oblativo di Gesù che umilia il peccato e sovverte l’opera perversa e malvagia di Satana.
Non si dà fede cristiana senza popolo, perché senza popolo non c’è carità, non si può giocare sé stessi nella carità, non si può cercare la felicità insieme. Il Paradiso è una festa di popolo, l’inferno è terribile solitudine, il purgatorio uno stato di purificazione che permette al peccatore di abbandonare ogni scoria di egoismo ed individualismo e di ritemprarsi nell’amore.
Ecco perché la prima cosa che Gesù fa nel Vangelo di questa seconda domenica di luglio è quella di mandare i suoi discepoli ad annunciare il Vangelo “a due a due”. E non è una semplice questione giuridica tipica della tradizione ebraica – per essere veritiera la testimonianza di una persona doveva essere confermata da un’altra –, ma è essenzialmente una questione di stile: il Vangelo, infatti, prima di tutto va predicato con la propria esistenza plasmata dall’incontro con l’altro. Gesù non dice agli apostoli cosa devono dire, ma come devono essere: pienamente concordi tra di loro, assetati di amicizia, di relazioni vere e autentiche, capaci di mettersi a servizio l’uno dell’altro, senza rancori, gelosi, invidie, ma avendo come unico grande riferimento Dio!
Cristo non ha bisogno di battitori liberi, di imprenditori del sacro, ma di uomini, fragili e peccatori, che però abbiano ben chiaro che solo l’amore converte al Vangelo.
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commenti
MASSIMO
14 luglio 2024 13:00
Grazie. Leggo con interesse i tuoi commenti. Meritano spazio di riflessione e confronto.