Dalla Scala a Vigorelli, coincidenze russe in tempi di guerra
Sabato scorso sono stato alla Scala. Non varcavo la soglia di un teatro da prima dell’inizio del Covid, ma devo ammettere che non ha perso nulla di una emozione che è sempre la stessa: ha ragione Salvatore Carrubba, Presidente del Piccolo Teatro, quando mi scrive che il teatro è stato dato per morto molte volte ma è sempre sopravvissuto. La sua magia rimane intatta, con quella sua straordinaria capacità di obbligarti ad ascoltare, a non distrarti, e se ti distrai a riflettere, intorpidito dal caldo buio dei velluti rossi che ti avvolge come un oppiaceo, in un misto di blanda resistenza e rassegnato abbandono.
Ero a vedere la Dama di Picche di Cajkovskij, un inaspettato capolavoro russo che ignoravo, e che è stato riportato in auge da Valery Gergiev, il tanto discusso genio russo della direzione d’orchestra attualmente sospeso da tutti i teatri occidentali per le sue posizioni politiche. E’ stato diretto dal suo sostituto Zangiev, decisamente all’altezza del compito. Impeccabili orchestra e coro, splendidi i costumi e le scenografie, toccanti le musiche, insomma un vero capolavoro e un rientro a teatro che non poteva essere migliore.
I primi dieci minuti vedono un coro di soldati e donne che inneggiano fierissimi alla lotta e alla vittoria contro i nemici della Russia...un tetro ma anche rasserenante gioco dell’arte, che contraddice i tempi e le scelte politiche, ma che in fondo rassicura, perché dice che se anche tutto ritorna, tutto passa. L’ultima parte dell’opera mette in scena mirabilmente due momenti perfettamente riusciti: una festa di addio al celibato in cui l’antichissima confidenza russa con l’alcool esplode in un incontenibile bagordo di camicie slacciate e soldati ciondolanti, e poi la morte improvvisa del protagonista, che ridesta immediatamente i russi ubriachi dall’alcool e li stringe, fierissimi e tetri, in uno di quei tristi, severi eppure dolcissimi cori che tanto ricordano le imperturbabili icone, la liturgia ortodossa e gli impenetrabili inverni siberiani. Un contrappunto da togliere il fiato.
Diceva Napoleone che l’unica vera sconfitta della sua vita fu la battaglia di Eylau, dove nel gelido inverno del 1807 i francesi vinsero in extremis solo per superiorità bellica, ma quasi mandati in rovina dalla inarrestabile carica dei russi, che incredibilmente non si arrendevano seppur ormai sconfitti e massacrati, gettandosi in una mattanza senza senso spinti da una bestialità quasi eroica che lasciò l’Empereur tanto disgustato quanto esterrefatto. Un paradosso che il Principe di Talleryrand, che di Napoleone era l’infido ministro degli esteri, consegnò alla storia dicendo che i francesi erano un popolo di raffinati governati da un rozzo, e i russi un popolo di rozzi governati da un raffinato, lo Zar Alessandro I. Quella bestialità guerriera è esattamente la stessa che permise a Stalin di fermare i nazisti a Stalingrado e iniziare la fine della seconda guerra mondiale, e cesellare definitivamente il mito della impenetrabilità militare della Russia, che ancora oggi, con notevolissima evidenza, permane. Un mondo a sé stante, assurdo nella sua immutabilità e assurdo anche nel suo rapporto con l’Occidente: Putin fa esattamente quello che fece Bresnev quaranta anni fa, eppure oggi l’Occidente capovolto vede i vecchi sostenitori di Bresnev nemici giurati di Putin, e i vecchi nemici dell’URSS cercare imbarazzati le ragioni dell’invasione dell’Ucraina, e con la NATO che è rimasta imperturbabilmente anti-russa come ai tempi dell’URSS.
Una terra strana, lontana, così orientale eppure così europea, così distante eppure così invadente, così impermeabile eppure così sempre al centro della storia: una civiltà nata dalla barbarie quando noi già eravamo al Rinascimento e che in venti anni, sotto Stalin, passò dal medioevo alla dominazione di mezzo pianeta senza che quasi il mondo se ne accorgesse.
Ha voluto poi il caso, o forse l’inconscio, che proprio in questi giorni mettessi mano a un prezioso regalo fattomi dall’amico e scrittore Matteo Collura e da lui prefatto, che da qualche settimana languiva sul mio tavolo: L’Europa Letteraria, una incantevole raccolta degli scritti che Giancarlo Vigorelli pubblicò nel quinquennio 1960/1965 sull’omonima rivista, che aveva come obiettivo l’incontro tra gli scrittori europei d’Occidente e quelli d’Oriente, tra quelli socialisti e quelli cristiani. Di quegli scambi letterari di altissimo livello, mi ha colpito il dibattito costante sulla destalinizzazione della cultura, all’interno del quale il gradissimo poeta Mario Luzi, certamente non di destra, accusa i comunisti sovietici di essere dei fascisti, e in cui Vigorelli gli risponde a tono benché lui stesso denunci altrove la mancanza di libertà di espressione degli scrittori russi sotto il regime e la inaccettabile rigidità dei censori del Soviet. Quella stessa mancanza di libertà riavvolse gli intellettuali russi solo venti anni dopo, quando col potere scesero le coltri purpuree dello “Zar” Bresnev, e a dettare la politica culturale era il suo affilato e arcigno ministro Suslov, irriducibile censore e alfiere di un ostracismo culturale che voleva la Russia pietrificata nel sogno post-stalinista ormai prossimo alla putrefazione. Una terra così rigidamente avvitata su stessa eppure così ingombrante da mandare continuamente in contraddizione l’Occidente al proprio interno e nei suoi confronti.
Che strana terra, che nell’era di internet e della pandemia mediatica, ci sbatte in faccia la più anacronistica e inconcepibile delle invasioni via terra coi carri armati, quando ormai noi credevamo che le guerre si facessero coi virus e i lockdown.
Scrive Fitzgerald ne Il Grande Gatsby: “mi pareva di desiderare che il mondo intero fosse in uniforme e in una specie di eterno “attenti” morale, non volevo più scorrerie ribelli e indiscrezioni privilegiate”. Anche a me, cresciuto in una famiglia di radici anticomuniste, capita oggi di provare un fascino inspiegabile per le austere rigidità sovietiche, per quelle ritualità severe e pompose che nella loro tragica fermezza appaiono oggi quasi rassicuranti, forse perché così lontane dal nostro edonismo ormai asfittico e che la pandemia ci ha rivelato in tutta la sua fragilità. Fatto sta che la Russia è oggi ancora al centro, nella sua contraddittoria presenza, sempre anacronistica e sempre contemporanea.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Dani
12 marzo 2022 07:55
Come sempre puntuale con gli eventi del momento e in questo caso collegarsi con la cultura e la musica russi è decisamente un bell'aggancio. Bravo come al solito
Martelli
12 marzo 2022 10:08
Grazie mille!
François
13 marzo 2022 10:28
Professore Grazie! Le sue analisi colte e puntuali sono una boccata d'aria fresca in mezzo alla retorica stucchevole che si scatena in questi frangenti. Le chiedo umilmente di sorridere a queste mie due piccole considerazioni: 1) si diceva che in URSS non si sapeva nulla ma si capiva tutto, mentre in Italia si sapeva tutto ma non si capiva nulla; 2) l'Europa dopo diciassette secoli è ancora divisa tra Impero Romano d'Oriente e d'Occidente: i confini fra le due entità sono variati nel corso del tempo, ma non di molto, le consuetudini, invece, sono ancora le stesse... Cordialità Francesco Capelletti
Martelli
13 marzo 2022 19:51
Gentilissimo Francesco,
I suoi commenti non solo sono graditissimi ma anche sempre pertinenti e in piena sintonia.
Un caro saluto