Dio moltiplica anche le briciole
“O Signore, ti ringraziamo del cibo che ci hai dato. Danne a chi non ne ha!” . È questa una delle preghiere che più frequentemente si recita prima di infilare la forchetta tra spaghetti fumanti e grondanti di pomodoro. Un’orazione che da una parte riconosce che tutto è dono di Dio – e in questo tempo in cui l’uomo si crede al centro del mondo è cosa salutare -, ma che dall’altra rivela un profondo disinteresse di fronte all’ingiusta distribuzione delle ricchezze, allo squilibro tra ricchi e poveri, alla mancanza di cibo che, ancora oggi, coinvolge oltre il 10% della popolazione mondiale.
È come se si dicesse: “Ti sono grato per questi alimenti, però pensaci tu a chi ha fame mentre io mi godo questa deliziosa amatriciana”. Una vera e propria aberrazione che dice la poca sincerità e profondità della preghiera pronunciata. Il dialogo con Dio, infatti, se è autentico, spalanca sempre gli occhi del cuore di fronte ai bisogni e le necessità del mondo. L’attenzione e la cura dell’altro, la compassione di fronte alle “ferite” del fratello, la misericordia verso una persona che ha sbagliato, sono i frutti più veri di una preghiera intensa. Insomma più si “frequenta” Dio più il cuore si dilata, più l’occhio intuisce ciò che manca, più la mano è svelta nel servire. La preghiera, lungi dall’estraniare il credente dalla realtà, lo immerge prepotentemente nel presente perché lasci tracce del Regno tra gli uomini.
I Vangeli, più di una volta, ci fanno notare la premura, la sollecitudine, la cura che Gesù ha per le persone che incontra e per le loro esigenze. Nel brano di Giovanni che leggiamo in questa ultima domenica di luglio Cristo si preoccupa dell’enorme folla che lo sta seguendo. Certo queste persone lo “tampinano” non tanto per le sue parole così profonde e così sapienti, ma per i tanti prodigi fatti dinanzi ai loro, per quei segni “miracolosi” compiuti sui malati e gli indemoniati: per ora a Gesù non interessano le motivazioni che li spinge a seguirlo, ma gli interessa le loro esigenze, i loro bisogni, le loro inquietudini.
Nonostante gli sforzi di Gesù i discepoli non hanno ancora acquisito quella capacità di intuire immediatamente i problemi e le necessità della gente, quella compassione che non è, come si intende oggi, commiserazione o pietismo, ma capacità di bussare al cuore, di creare empatia, di caricarsi, in ultima analisi, delle sofferenze dell’altro. Compassione significa che l’altro mi interessa fino in fondo e che sono disposto a giocarmi per lui, anche se ciò comporta caricarsi sulle proprie spalle il suo dolore e il suo disagio. L’atto più compassionevole che la storia abbia mai contemplato è indubbiamente la Croce di Gesù: in quel momento, in un supremo atto di amore, Cristo prende sulle spalle tutto il peccato, tutto il dolore, tutta l’angoscia e la disperazione dell’umanità per fare così la sua offerta obbediente al Padre. Egli si immola nell’amore.
La cosa esaltante in tutto questo “folle” progetto è che il Signore vuol avere bisogno dell’uomo; Sant’Agostino direbbe in maniera lapidaria ma esaustiva: “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te ”. Dio fa tutto, ma l’uomo deve dare il suo assenso, deve pronunciare – come Maria nella casa di Nazareth – il suo “eccomi”: d’altra parte potrebbe esistere amore senza libertà?
È interessante notare che nel grandioso miracolo dei pani e dei pesci – raccontato ben sei volte nei quattro Vangeli – Gesù anzitutto coinvolga i suoi discepoli affinché si facciano carico della fame della gente e poi moltiplichi solo ciò che è condiviso: in questo caso un ragazzo offre cinque pani d’orzo e due pesci. Questo gesto può apparire inutile, addirittura sembrare una pazzia - come sfamare una folla di cinquemila uomini con quelle poche cose? – eppure quell’atto di compassione diventa il germe del prodigio che permetterà di saziare tante persone. Neanche Dio può (vuole) moltiplicare dal nulla: a lui basta anche solo una briciola, ma chi si offerta con tutto il cuore e con la consapevolezza che ogni atto di amore, vero e autentico, può rivoluzionare le sorti del mondo. La vedova che butta nel tesoro del tempio solo due monetine non è forse grande agli occhi di Dio?
Quando leggo la moltiplicazione dei pani mi viene sempre alla mente quei miracoli di carità che il Signore ha compiuto nel corso dei secoli grazie a quelle briciole di amore che tanti santi gli hanno offerto. Penso, per esempio, a San Filippo Neri che nella Roma del Cinquecento ha raccolto intorno a sé poveri pellegrini e ragazzi scapestrati: oggi, nel suo nome, una Congregazione religiosa – i Filippini - continua ad operare con zelo ed efficacia nel campo educativo. Penso a San Giovanni Bosco che dal piccolo oratorio di Valdocco, grazie a migliaia di suoi discepoli, è giunto in ogni parte del mondo con i suoi istituti, le sue scuole, i suoi oratori.
Penso a Madre Teresa di Calcutta che è partita con un piccolo ospedale a Calcutta e ora le sue suorine, avvolte dal caratteristico sari bianco bordato di azzurro, rappresentano in tutto il pianeta l’emblema della carità che si spinge all’eroismo.
Sono tanti gli uomini e le donne che, animati dalla fede, hanno consegnato a Dio la propria briciola, senza domandarsi se il loro impegno potesse cambiare la realtà, se la loro offerta fosse utile o inutile. Non hanno abbassato lo sguardo di fronte al pianto del mondo, non hanno caricato su Dio la responsabilità di cambiare le cose, non hanno compiuto nessun passo indietro. Hanno creduto all’amore e al fatto che il Signore moltiplica il nostro poco – fosse anche la nostra fragilità e le nostre insicurezze -, ma non il nostro niente! Non c’è nulla da fare: l’amore di Dio si manifesta principalmente nell’amore concreto e appassionato dei suoi discepoli. Mazzolari, dall’alto del pulpito di Bozzolo, tuonerebbe: “Ci impegniamo perché noi crediamo nell’Amore, la sola certezza che non teme confronti, la sola che basta per impegnarci perdutamente”.
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