Draghi, primo impegno: riportare l'economia con i piedi per terra
Peggio di un triplo salto mortale senza rete. Tale è la sfida che il governo deve affrontare per rimettere il sistema Paese in condizione di produrre ricchezza commisurata alla voragine del debito contratto. Riassetto del sistema produttivo, risposta alla drammatica deindustrializzazione del Meridione, elaborazione di un modello di sviluppo ecosostenibile dopo anni in cui s’è navigato a vista senza modello e con poco e disomogeneo sviluppo. La sfida è, insieme, economica, sociale, tecnologica ed ecologica. Il premier Draghi in visita giorni fa al carcere di S.Maria Capua Vetere s’è espresso in termini di pregevole realismo: ‘Siamo qui per prendere atto dei nostri fallimenti’. Difficile dire meglio e con meno parole qualcosa che palesemente trascende la circostanza specifica per assumere più vasta portata. Di criticità, se non di fallimenti, in Italia ne abbiamo da vendere. Ma c’è una parola, breve e antica, che tutti, direttamente o indirettamente, li riassume: lavoro. Posti di lavoro bruciati dalla crisi e dalle delocalizzazioni selvagge, ristagno sociale di una parte del Paese in una disoccupazione fatalisticamente accettata, flop del reddito di cittadinanza che più che come politica attiva del lavoro sta operando come politica attiva del lavoro nero. È pur vero tuttavia che in molti settori il lavoro non mancherebbe. Dio sa la fame che il sistema ha di operai specializzati, infermieri, camerieri, panificatori, artigiani e così via. Ma non riesce a intercettarli perché domanda e offerta non riescono a incontrarsi: ritardi, distorsioni, paradossali incongruenze di un mercato del lavoro in cui urge metter mano con adeguata lungimiranza. In primo piano nelle cronache di questi giorni c’è la sofferenza del comparto automobilistico. Multinazionali che, intascati incentivi statali e macinati utili, di punto in bianco optano per più promettenti praterie e con una mail comunicano a centinaia di lavoratori il loro repentino cambio di status: da occupati a disoccupati. Quale buco nella nostra normativa consente disinvolture imprenditoriali palesemente intollerabili? Ma quand’anche cercato, trovato e rattoppato il buco, il problema resterebbe lontanissimo dalla soluzione. Infatti sta altrove. Sta nell’assenza di un piano industriale degno di questo nome e nella scandalosa perifericità in cui le classi dirigenti che si sono alternate negli ultimi decenni hanno lasciato marcire la questione. Senza una chiara ridefinizione di asset strategici e del posto che il nostro sistema industriale intende occupare nell’economia globalizzata dei prossimi decenni ogni sforzo di attirare investimenti e scegliere partner è condannato al respiro corto e al frequente insuccesso. Ma si direbbe che la politica ha altro per la testa.
Il contributo di Grillo, padre ideologico dell’attuale partito di maggioranza relativa, alla nostra crisi industriale fu la proposta di trasformare l’ex Ilva di Taranto in un parco giochi per l’infanzia. Un comico deve far ridere e il risultato è puntualmente raggiunto. Ben altro andrebbe detto su un Pd che, erede di una solidissima cultura industriale, sta inchiodando il parlamento sul ddl Zan, presunto ombelico del mondo, mentre ogni giorno fioccano licenziamenti e centinaia di famiglie precipitano nella precarietà. Attenzione, perché quest’emergenza destinata purtroppo a prender peso ed estensione ridurrà a insopportabile chiacchiericcio molto dell’attuale dibattito politico generando esplosioni d’insofferenza d’imprevedibile portata. I lavoratori licenziati con una mail ci ricordano, o dovrebbero ricordarci, la permanente centralità del fattore umano nel sistema produttivo: l’uomo produce merce ma non è merce. In questo senso il processo di cui siamo spettatori è drammaticamente involutivo non solo in senso morale e sociale ma anche, e soprattutto, in senso culturale.
E dire che la ‘cultura d’impresa’ fu tutt’altro che estranea alla nostra storia industriale. Nell’Italia del secondo dopoguerra impegnò teste pensanti di ogni estrazione ideologica e produsse esperienze imprenditoriali e sindacali di tutto rilievo. Un nome e un luogo per tutti: Adriano Olivetti che a Ivrea immaginò la fabbrica come luogo di armonico e costruttivo incontro fra capitale e lavoro e come punto d’appoggio per un grande disegno riformatore capace di modernizzare il Paese. Cose remote, patetici reperti di archeologia industriale. Eppure l’intuizione che fece da leva a tutto questo era nell’ordine delle semplici e perenni verità: un comportamento moralmente corretto negli affari e nella conduzione d’impresa non solo non nuoce al profitto ma è il criterio di razionalità economica infine più pagante. Un operaio umanamente rispettato e soddisfatto nelle sue legittime esigenze lavora meglio, è più solidale con le sorti dell’impresa, il che fa bene a tutti gli attori del processo produttivo. Ma stiamo parlando di capitoli rari e isolati in ben altro decorso del nostro capitalismo industriale. Scarsamente incline al rischio d’impresa, all’innovazione tecnologica che dà forza competitiva sui mercati, condizionato a irragionevoli rigidità dalla pressione sindacale, ha troppo spesso scelto la serra calda della protezione e degli aiuti di Stato inoltrandosi così nelle avvolgenti spire della politica e nel mortale abbraccio con le caste di partito. Abbiamo troppo spesso in passato temuto il mercato quando ci avrebbe invece fatto bene, costretto a lasciar morire i settori decotti e a convogliare energie e risorse su quelli vincenti. E per dantesca legge del contrappasso ci ritroviamo oggi a subire ben altro mercato e ben altra concorrenza. Quella selvaggia e asimmetrica di una globalizzazione improvvisata e incontrollata che, con l’aggravante del mordi e fuggi, riproduce l’antico e già noto andazzo: privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite scaricandole sulla collettività ospitante.
A fronte di tutto questo appare difficile immaginare correttivi che prescindano da due esigenze tanto gigantesche che anche l’occhio profano non fatica a coglierle. Primo: riportare l’economia coi piedi per terra e sottrarla all’etereo stato gassoso della dimensione finanziaria in cui è in parte svaporata a vantaggio di pochissimi e a danno dei più. E’ banale augurarsi che torniamo a produrre roba, beni pesabili e misurabili? Magari per non ritrovarci, modesto ma realistico esempio, in piena pandemia senza mascherine perché quelle, nella planetaria divisione del lavoro, tocca alla Cina produrle. Secondo bisogno: un’economia stanziale. Stanziale, cioè che ‘sta’ su un territorio, dentro una storia sociale condivisa, che non è un marziano di passaggio ma attore pensante di un concertato progetto di crescita del Paese. Draghi, che sovrasta in maniera imbarazzante la statura media dell’attuale ceto politico è, com’è noto, un banchiere e uomo di finanza. E qualcuno, sempre meno, in verità, solleva dubbi che un banchiere possa essere l’uomo giusto per la ricostruzione di un sistema industriale. Siamo di tutt’altro avviso. Chi meglio di un banchiere, palesemente in grado di riflettere criticamente su un’esperienza finanziaria maturata ai massimi livelli, può sapere che la finanza non è e non può più fingere di essere il luogo totale dell’economia?
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