13 agosto 2022

Edoardo VII, il Re Dandy che ha inventato l’Estetismo

Esattamente 120 anni fa la Corona Imperiale di Stato cingeva per la prima volta la grossa testa di Alberto Edoardo Sassonia Coburgo Gotha, per gli amici “Bertie”: era il primo figlio maschio di Vittoria Hannover, Regina di Gran Bretagna e Irlanda e Imperatrice d’India e dei domini britannici, che si era arresa suo malgrado a lasciare il trono (e il pianeta terra) dopo 63 lunghissimi e prosperi anni di regno, che fecero del nostro eroe il più ricco e potente ereditiero del pianeta. Bertie aveva aspettato la bellezza di 60 anni per diventare sovrano, durante i quali non aveva avuto, per ferrea volontà materna, alcun ruolo nella politica britannica…chissà se questo regale rapporto madre figlio all’inglese vi ricorda qualcosa di molto molto attuale… 

Edoardo VII (così scelse di chiamarsi) rimarrà sul trono per meno di 9 anni, che però gli sono bastati per lasciare al mondo intero una eredità di gusto, raffinatezza, eleganza, goliardia, dissolutezza, non curanza e strafottenza senza eguali, l’Età Eduardiana appunto. 

Qualsiasi sia il cliché che avete in mente, dal playboy miliardario all’elegantissimo collezionista d’arte, dal figlio di papà strafottente e debosciato al mecenate dell’arte in tutte le sue forme, dal dandy fissato per l’eleganza più affettata, ebbene sappiate che Bertie è stato quintessenza e principio di tutto questo. E non poteva che essere così: era l’erede universale dell’Era Vittoriana e del decadentismo wildiano, fu il primo Re del ‘900 ma morì poco prima che quel secolo mostrasse tutto il suo orrore. Era il prodotto della società più ricca e cosmopolita che si fosse vista dalla Roma imperiale, e di quell’enorme eredità fece una sublimazione estetica totalmente fine a sé stessa. Una vita dedicata al divertimento, al lusso, alla bellezza, al cibo, all’arte, ai vestiti e al piacere che lasciò un segno indelebile in migliaia di suoi emuli, dal nostro D’Annunzio fino a Bernard Berenson, che nella sua villa toscana “I Tatti” tenne vivo quello stile incredibile di vita fino alla fine degli anni ’40 del ‘900. Pittori, poeti, musicisti, architetti, prostitute d’alto bordo e bellissime cortigiane, nobilissime ereditiere e vecchie marmotte pelate dai mille cognomi, raffinatissimi dandy e sportivi di ogni genere, fiumi di champagne e dimore arredate con ogni oggetto che i confini infiniti dell’impero potevano portargli, fino alla totale reinvenzione del guardaroba maschile che lì raggiunse un apice mai più toccato, tutto questo era il mondo di Bertie. Il tutto fregandosene meravigliosamente di quanto potesse accadere al di fuori della sua cerchia, grazie alla ricetta finale da lui trovata di quella che Fitzgerald definirà qualche anno dopo “la infinita non curanza dei ricchi”… Non è assolutamente un caso che Oscar Wilde, il padre del Decadentismo, morisse l’anno prima che Bertie divenisse Re: quella dissoluta e vanitosa contestazione della borghesia Bertie riuscì a trasformarla in compiaciuta contemplazione, l’Estetismo: il bello per il bello e l’arte per l’arte, senza rasentare il suicidio ma anzi cercando un goliardico e splendido isolamento da tutto il resto.

Del resto, che cosa poteva mai fare l’erede del più grande impero del mondo se la mamma non lo faceva regneggiare? Divertirsi senza ritegno e spendere una enorme quantità di denaro! E il nostro Bertie ne fu senza dubbio un campione: ancora oggi in Inghilterra viene chiamato “the playboy Prince”, a ricordo della dissolutezza dei suoi costumi e la infinita quantità di amanti che strusciarono attraverso le regali lenzuola. E tutto benchè non fosse certamente un Adone, anzi… per buona parte della sua vita fu un enorme panzone barbuto con uno sguardo tutt’altro che sexy: ma tutto il suo potere, le sue incommensurabili ricchezze, i lussi e le raffinatezze cui era stato abituato da sempre, l’enorme quantità di tutto il meglio che il mondo poteva offrire (e che veniva puntualmente spedito a Londra) in cui sprofondava fin da bambino lo resero totalmente indifferente alla ciccia e alla bruttezza. E nel suo sguardo si legge pienamente una straordinaria, inarrivabile, divertitissima strafottenza che fa subito pensare al famoso sonetto del Belli:

“C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun ziete un cazzo!»

Altro che passare la vita tra i dietologi per dimagrire, nulla rende affascinanti come l’essere sicuri di sé, ed anche avere i migliori sarti del pianeta a disposizione: quel “britsh style” che è ormai un classico e che ha condizionato la moda maschile per decenni è tutto merito suo. Mandó definitivamente fuori moda il cilindro dando il via a decenni di cappelli con la piega in mezzo iniziando a portare un nuovo cappello che aveva visto in germania ad Homburg: quello che da noi si chiama lobbia per tutto il resto del mondo è l' homburg hat e lo si deve a Bertie.Fu lui a prendere i tessuti finestrati e riquadrati dei vari clan scozzesi e a farci, invece che dei gonnellini alla Brave Heart, degli splendidi abiti col panciotto, fino a quando suo nipote, quell’Edoardo VIII che abdicò per sposare l’americana Wallis Simpson, scelse il tessuto del clan Glen Urquhart, l’unico grigio, come suo abituale abito quando era Principe del Galles: da allora quel tessuto prese quel nome che ancora oggi porta. Edoardo VIII, Duca di Windsor, fu l’uomo più elegante di tutta la contemporaneità e degnissimo erede del nonno, almeno quanto a stile ad amare ben più il piacere che il dovere.

Fu però anche un grandissimo mecenate delle arti il nostro Bertie: le musiche di Edward Elgar, che in ogni benedetto film in cui compaia un pezzo di Londra fanno da sottofondo inconfondibilmente british, i ritratti di John Sargent il pittore dei languidi ed effeminati dandy inglesi, la architetture di Edwin Luthyens che ridisegnarono completamente Londra fino a creare uno stile detto “barocco edoardiano”, sono l’inconfondibile eredità del Re Dandy che ha fatto del proprio stile di vita un pezzo di storia e di costume d’Occidente e non solo.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

 

 

Francesco Martelli


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