13 febbraio 2021

Fede e web, ma il cristianesimo non può rinunciare all'incarnazione

Nello stupendo film “Il ritorno di don Camillo”, l’indomito parroco interpretato da Fernandel, alle prese con la famosa alluvione del 1951 (che aveva colpito non solo il Polesine ma anche la Bassa reggiana e quindi anche Brescello), conforta i suoi parrocchiani accampati sull’argine, suonando le campane e indirizzando loro, dalla chiesa invasa dall’acqua, un messaggio di vita e di futuro. 

Settant’anni dopo la comunità cristiana sta vivendo le stesse dinamiche: non c’è più l’acqua che impedisce di riunirsi e di pregare insieme, ma un maledetto insidioso virus; non sono più solo le campane a ricordare agli uomini la presenza di Dio in mezzo a loro, ma ora ci sono i computer, i social networks, gli strumenti digitali. Rimane tra don Camillo e i suoi confratelli del Terzo Millennio l’ansia pastorale di restare vicini alle persone, di offrire parole di speranza, di mantenere unita, nonostante tutto, la comunità. Non che prima del Covid19 fosse facile serbare viva la comunione tra le persone: da anni, infatti, serpeggia un individualismo esasperato che fa apparire superflua la vita comunitaria e una fede “fai da te” o “mordi e fuggi” che ritiene non necessaria la partecipazione settimanale alla Messa o agli appuntamenti comunitari.

Sta di fatto che nel mese di marzo 2020 sono apparsi tanti canali Youtube e profili Facebook di parrocchie e oratori con l’intento di trasmettere le celebrazioni liturgiche o gli incontri di catechesi. Preti e laici si sono poi specializzati in programmi di videoconferenze: zoom, meet.jit.si e altri ancora.

Le stesse televisioni generaliste non si sono fatte trovare impreparate: TV2000, l’emittente dei cattolici italiani, ha ampliato il numero delle Eucaristie trasmesse quotidianamente, RaiUno con la Messa delle 7 del Papa ha raggiunto indici di ascolto inaspettati.

Facendo un calcolo approssimativo possiamo senz’altro affermare che nella nostra diocesi quasi la metà delle parrocchie ha utilizzato i mezzi digitali per mantenere un contatto, almeno virtuale, con la propria gente. E l’esperimento sembra essere stato apprezzato: pur potendo seguire il Papa o il Vescovo in televisione – tra l’altro in maniera più comoda e veloce e con un’offerta celebrativa più curata e solenne – i fedeli hanno optato per la propria comunità: il legame con la propria chiesa e il proprio prete hanno prevalso.

Questo fenomeno che dice quanto la Chiesa sia capace di adeguarsi ai tempi e di sfruttare tutti gli strumenti che la tecnologia mette e a disposizione, cela però alcune insidie, che a lungo andare rischiano di minare nel profondo la vita delle comunità cristiane.

Anzitutto c’è da dire che non basta posizionare una telecamera, spingere un bottone e far partire una diretta: per trasmettere una celebrazione occorre una minima preparazione tecnica (telecamere che trasmettano nitidamente, un audio soddisfacente, una inquadratura precisa), ma soprattutto celebrativa. La sciatteria e l’improvvisazione in ambito liturgico sono sempre un male, ma lo sono ancora di più in ambito “televisivo” perché certi errori o manchevolezze si amplificano: un lettore che legge male, la scarsa coordinazione tra i ministri sull’altare, una confusione generale diventano ancora più marcati durante una diretta! Così l’omelia fatta via web deve essere più breve rispetto a quella fatta in presenza: la tentazione di distrarsi in casa propria è molto più frequente rispetto la chiesa! La liturgia dovrebbe sempre trasmettere un senso di armonia, ordine, bellezza…

Ma oltre a queste c’è un’insidia ancora più grave che papa Francesco ha stigmatizzato nell’omelia del 17 aprile 2020: “questa pandemia che ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione, anche questa Messa, siamo tutti comunicanti, ma non insieme, spiritualmente insieme. Il popolo è piccolo. C’è un grande popolo: stiamo insieme, ma non insieme. Anche il Sacramento: oggi ce l’avete, l’Eucaristia, ma la gente che è collegata con noi, soltanto la comunione spirituale. E questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre”.

Il Pontefice in quella stessa omelia aveva parlato di una possibile deriva gnostica della fede. Lo gnosticismo è un’eresia dei primi secoli del Cristianesimo che postulava la conoscenza (gnosi), frutto di una illuminazione dall’alto, come via di salvezza, inoltre teorizzava la liberazione dell’anima dalla prigione del corpo e considerava la mediazione della Chiesa come del tutto secondaria nel rapporto fra Dio e l’uomo. La gnosi era una sorta di spiritualizzazione estrema della fede cristiana che negava l’incarnazione del figlio di Dio come fondamento essenziale della salvezza. A questa dottrina si oppose Tertulliano – e con lui altri padri della Chiesa - con il famoso postulato “Caro cardis salutis”: la carne è il cardine della salvezza. Nell’esperienza cristiana la corporeità ha un valore essenziale: l’Eucaristia, “fonte e culmine” della vita cristiana è, infatti, un sacramento non solo da adorare, ma soprattutto da celebrare insieme e da mangiare!

Abituarsi alla celebrazione eucaristica in televisione o via web conduce ad una sorte di estraniazione dalla comunità a favore di un’enfasi dell’individualismo religioso; porta, inoltre, a pensare alla Messa come una sorta di spettacolo a cui partecipare senza un coinvolgimento pieno della persona che dalla Messa deve trarre la forza della conversione e della testimonianza; conduce, infine, ad intendere la propria fede cristiana in termine solo spirituali (espressione di una “eclissi del corpo” tipica del nostro tempo), dimenticando che Cristo ha annunciato il Regno “con eventi e parole” (cfr. Dei Verbum n. 2) e che i sacramenti (segni efficaci dell’azione di Dio nella storia umana) coinvolgono sempre gesti e parole. Una spiritualizzazione del cristianesimo porta inevitabilmente ad un impoverimento e ad una perversione del messaggio di Gesù il quale è venuto a salvarci proprio facendosi uomo: è nell’umano, non nel virtuale, che Dio si manifesta e salva l’uomo.

Ben vengano le catechesi o le riunioni organizzative fatte attraverso le piattaforme digitali, ma la celebrazione eucaristica, perché davvero porti frutto, va vissuta in presenza, coinvolgendo tutto se stessi, anima e corpo, pienamente inseriti in una comunità che sostiene, indirizza, corregge, stimola il singolo nel suo cammino verso la piena conoscenza di Dio e soprattutto comunicandosi al Corpo di Cristo.

Chissà cosa direbbe don Camillo delle Messe via web… 

Claudio Rasoli


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti