Gli anglosassoni e la Toscana, storie di turismi che andrebbero riscoperte
Mi trovo per mia fortuna da qualche giorno nel mio rifugio pientino, al centro della Valle dell’Orcia a piedi di Siena. Seduto al tavolino di caffè di una delle più belle piazze del mondo, non ho potuto non notare assieme agli ormai inarrestabili asiatici, moltissimi americani ed inglesi, che come nella più antica tradizione continuano a frequentare la Toscana, anche se in termini di eleganza cultura e bon ton non paiono certo gli eredi dei loro predecessori. Mentre sorseggio il mio gingerino al bar della Posta, che la famiglia dell’oste Michele ha presidiato fin dal 1470, non faccio che sentire cantilene insopportabili che suonano tutte uguali: “GRAZZI”, “CAPUCINOHHH”, “OH MY GOD!”, “FRANCICOTTA” e via discorrendo… E subito ripenso a quando la toscana di popolava di ben altri soggetti.
Dalla fine dell’800 agli anni ’50 del ‘900 la cultura anglosassone impazzì letteralmente per la Toscana, per una serie di ragioni che in buona parte abbiamo già affrontato in altri editoriali, e il motivo per cui per gli anglosassoni la Toscana ancora così tanto identifichi la cultura italiana in generale è certamente un retaggio di quegli anni, ma come per quegli anni una qualche insondabile e difficilmente spiegabile ragione “arcana” permane anche in questi ben più inadatti eredi degli aristocratici turisti di quegli anni. Quella ragione è molto probabilmente la straordinaria potenza di quel secolo incredibile che ha fatto la storia dell’umanità, ben più del Rinascimento fiorentino che ne è una raffinatissima evoluzione, e che in termini sociali e culturali nasce proprio qui a Siena e nel Senese: il magnifico Dugento. La riscoperta di questo immenso patrimonio al dobbiamo proprio agli anglosassoni, ma di 100 anni fa.
Il più illustre di tutti questi grandi fu Bernard Berenson, uno dei più grandi conoscitori assoluti della pittura italiana e certamente il più grande della pittura toscana tra Duecento e Trecento. Figlio della umile famiglia ebrea lituana dei Valvrojenski, emigrò con la famiglia da piccolo a Boston dove prese il cognome di Berenson. Grazie alle sue qualità eccezionali poté accedere alla migliori università americane, trasferirsi a Parigi e da lì in Italia alla fine dell’800 dove iniziò una incredibile (e assolutamente proficua) carriera di storico dell’arte e soprattutto di consulente di ricchissimi collezionisti americani, tra i quali anzitutto Georges Wildenstein, detto “il barracuda, che assieme a Pierre Rosenberg deteneva de facto il mercato dell’arte tra le due sponde dell’Atlantico. Berenson guadagnò cifre enormi creando collezioni per i grandi magnati americani e questo gli permise di creare attorno a sé, nella magnifica villa cinquecentesca de I Tatti a Fiesole, l’ultimo scampolo di Europa eduardiana, in mondo rarefatto e decadente costellato di vecchie glorie del teatro e del cinema, nobiltà zarista in esilio, gentiluomini britannici, Rolls Royces cuochi e giardinieri. Va obbligatoriamente citata in questo parterre Nicky Mariano, che di Berenson fu segretaria tutto fare ma anche co-artefice di quell’immenso successo, una donna dalle qualità assolute. Berenson morì a Fiesole dopo oltre 50 anni di vita trascorsa in Toscana e dopo essersi convertito al Cattolicesimo, aspetto questo assolutamente non di secondo piano: tali erano l’attrazione e l’amore viscerale di questi “stranieri” per l’arte italiana che finivano per sposare il credo religioso che l’aveva ispirata, potere dell’arte. I suoi scritti sono pietre miliari della storia dell’arte italiana, su tutti Drawings of florentine paintings, e a lui si deve il riconoscimento del primato assoluto dell’arte del Duecento e soprattutto di quella senese.
Il caso non è assolutamente isolato anzi, ve ne fu uno ancor più estremo: è quello di Fred Mason Perkins, un americano del Massachusetts che fini la sua vita in una sorta di ascesi francescana fatta di privazioni e rinunce, ma che lasciò ai Francescani di Assisi una splendida collezione di arte italiana tra il ‘200 e il ‘500. Uomo d’affari divenne poi un marchand amateur come si diceva allora, e cioè uno di quei collezionisti d’arte che tra la fine dell’800 e il ‘900 passavano dall’essere appassionati ad essere finissimi conoscitori e poi mercanti d’arte. Anche lui irrimediabilmente stregato dalla pittura toscana del Dugento, finì per dedicarvi tutta la vita in un misto di commercio e accumulo di opere intriso sempre più di un misticismo penitente che lo portò ad eccessi come vivere privo di riscaldamento e risparmiare perfino sulla carta da lettera riutilizzandola più volte. Convertitosi anche lui, ça va sans dir, al Cattolicesimo scelse Assisi come suo luogo di vita e ivi morì nel 1955 in uno stato di povertà quasi assoluta, benchè avesse in banca oltre un milione di dollari di allora e lasciando appunto ai Frati una impressionante collezione d’arte antica.
Altro interessantissimo personaggio fu il colonnello inglese Robert Langton Douglas, presbitero anglicano e professore universitario oltre che pilota ed eroe di guerra: straordinario conoscitore, innamorato e collezionista della nostra pittura toscana, alla cui conoscenza e diffusione contribuì quanto i due precedenti “colleghi” illustri. Marchand amateur anch’egli, spese una intera vita per la pittura senese e tutto ciò che possedeva nell’acquisto di arte italiana tra il ‘200 e il ‘500. Qualche mese fa in Archivio trovammo delle immagini del 1940 di opere d’arte imballate di ritorno da una mostra di New York sull’arte rinascimentale italiana. A Causa dell’imminente inizio delle ostilità belliche le opere vennero temporaneamente trattenute nei sotterranei del Castello Sforzesco: tra le altre dei dipinti di Filippino Lippi e dei disegni di Leonardo. Leggendo gli inventari scoprì non senza un certo entusiasmo che le opere erano proprio del colonnello Langton Douglas. Morì anche lui in Italia, a Fiesole, negli anni ’50 ed è tutt’ora sepolto a Siena. Della sua collezione stavolta ebbero a godere l’ultima moglie Jean e gli illustri figli, uno Maresciallo dell’Aria e un altro illustre cattedratico.
Insomma vi fu un tempo in cui l’amore degli anglo-americani per la nostra arte sfiorava la religiosa devozione, e alcuni dei migliori intellettuali del mondo sceglievano proprio l’Italia non solo per vivere ma per raccontarne al mondo (e forse agli stessi italiani) le meraviglie riscoperte. E ad essere sincero, quando vede quelle frotte di pancioni smorti strascinarsi i trolley per le vie della nostre città, un certo moto di rimpianto viene sopraffatto dalla convinzione che forse, essendo ancora il più bel Paese del Mondo, dovremmo fare qualche riflessione in più e qualche azione in più per preservarlo questo tesoro dalla “quantità” di turisti, cercando di premiare la qualità del turista…
(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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