6 giugno 2021

Gli archivi e i loro segreti: storie private e pubbliche tra cinema, realtà e solidarietà

“Guerre Puniche a parte, mi hanno accusato praticamente di tutto quanto è accaduto in Italia. Ma io non ho mai sporto querela. Il motivo? Possiedo un grande senso dell’umorismo. E un’altra cosa possiedo, un grande archivio. E non appena nomino il mio archivio, improvvisamente, chi deve tacere comincia a tacere”. Con queste parole entra in scena Toni Servillo nei panni di Giulio Andreotti ne “Il Divo” di Sorrentino.

Nel film “Red” un sornione e attempato Ernest Borgnine, archivista dei Servizi Segreti, sorride a un preoccupato Bruce Willis che ha appena aiutato a svelare un complotto: “Non hai paura che ti facciano fuori?” Risposta dell’archivista: “chi io? Con tutto quello che visto qui dentro?!”.

In “Terzo Grado”, crudo poliziesco anni ‘80 con Nick Nolte, un vecchio Procuratore infrange i sogni di un suo giovane parigrado dicendogli che il grande scandalo da lui scoperto verrà tutto insabbiato. “E tutte le prove? I fascicoli? I dossier?” chiede il giovane “Un giorno ti porterò alla Divisione Archivi (risponde il vecchio burattinaio). Dovresti vederla, hanno fascicoli che risalgono al 1791. E in ogni caso, la carta brucia a 451 fahrenheit…” citando il romanzo di Bradbury in cui tutti i libri vengono bruciati.

In “J.Edgar”, di Clint Eastwood, appena ricevuta la notizia della morte del fondatore dell’FBI Hoover i suoi più fidi collaboratori distruggono il suo archivio privato appena prima che gli uomini del Presidente Nixon possano impossessarsene per poter ricattare l’intero Paese.

Di esempi nel cinema ce ne sono a decine, oltre a tutti i documentari sui segreti dell’URSS di Stalin o dell’assassinio di Kennedy e la CIA, e gli archivi gira e rigira trasmettono sempre un’idea di sospetto, di chissà quali segreti oscuri e ricatti celati. Perfino Papa Francesco, per mettere a tacere decenni di illazioni, pettegolezzi e complottismi sugli Archivi Vaticani ha riportato il nome dell’archivio “separato” (secretum in latino) degli atti di governo del Papato da “Secretum” ad “Apostolicum”: nulla è più rassicurante di un archivio “apostolico”, esattamente come nulla è più suscettibile di sospetto come un archivio “segreto”.

E in effetti, al di là delle caricature cinematografiche, gli archivi custodiscono informazioni che sono “segretate” perfino dalla Legge. Il Codice dei Beni Culturali ( il DLgs 42/2004) e il Codice in materia di protezione dei dati personali ( la legge sulla privacy per capirci, il DLgs 196/2003) stabiliscono norme rigide e inderogabili sull’accesso agli archivi. Dopo 40 anni dal versamento in archivio, ogni documento di interesse pubblico o detenuto da enti pubblici è liberamente consultabile da chiunque, eccetto che non riguardi dati “sensibili” afferenti la sfera sessuale, la salute o fatti pregiudiziali di natura religiosa o etnica di un individuo.

E’ il caso per esempio del Censimento degli Israeliti del 1938, custodito nella nostra Cittadella degli Archivi, che rappresenta il più grande censimento razzista ancora oggi conservato in Italia: circa 11.000 dettagliatissime schede anagrafiche, che dall’agosto del 1938 registrarono metodicamente vita, lavoro, religione e famigliari di tutti gli ebrei o ritenuti tali che avessero messo piede in Milano da lì al 1945, e che fino al 2016 sono state gelosamente custodite senza che nessuno potesse avervi accesso, in attesa dello scadere dei 70 anni previsti dalla normativa.

Oltre ad altri segreti amministrativi che custodiamo e che non posso rivelare qui, in Cittadella trovano posto oltre 90.000 fascicoli di altrettanti dipendenti della pubblica amministrazione milanese.  Ognuno di loro racconta una vita di lavoro, e quindi una vita intera. Parte del nostro mestiere è proprio “scremare” quelle pratiche dai dati sensibili quando ci vengano richieste in consultazione. E ogni volta questa operazione genera emozioni inaspettate: promozioni, lutti, malattie, separazioni, figli che nascono e si laureano, sussidi e aiuti, cause, denunce. Tutta una vita, in tutte le sue imprevedibili disavventure e manifestazioni inattese di aiuti insperati, raccontata in un plico di carte. E più si va indietro nel tempo, più ci si rende conto di quanto la vita era più difficile, ma molto più solidale, anche a livello di sistema. 

Gli enti pubblici costruivano case per i loro dipendenti che rimanevano in affitti agevolati alle vedove, forniva sussidi per malattie impreviste, perfino per le spese dei funerali. Oggi tutti questi verrebbero visti come dei privilegi inaccettabili, rovinati come siamo da una demagogia sistemica che mette tutti contro tutti, mentre erano all’epoca frutto di un contesto in cui essere parte di un qualcosa aveva senso non solo  socialmente, ma anche delle conseguenze reali e quotidiane: penso alle decine di cooperative abitative, alimentari e ricreative bianche o rosse che fossero, ai dopolavoro, alle Acli e ai bar e circoli. Tutto sparito. Oggi siamo allo smart working, con il lavoratore monade che si paga luce e riscaldamento lavorando da casa,  anche se con le tante comodità che oggi le case ci offrono. Però chi scrive è convinto che il lavoro è anche un luogo di vita e di incontro, che generava un senso della solidarietà istituzionale che non è nemmeno immaginabile nel conteso attuale, in cui a dettare il passo dell’efficienza locale italiana ci sono le tabelle delle società di revisione anglo-americane. Con il risultato peraltro che di certo abbiamo perso la solidarietà, ma non mi pare abbiamo guadagnato in grande efficienza. 

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

Francesco Martelli


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


Dani Azzol Farinottidani

6 giugno 2021 08:32

Martelli sempre preciso e interessante ci documenta con leggerezza cultura ed eleganza