Chiarissimo il messaggio espresso dal voto: gli italiani che, in percentuale significativamente bassa, si sono recati alle urne ritengono conclusa la stagione dei governi tecnici e dei papocchi emergenziali. Scelgono di essere governati dal centro destra e in particolare da Giorgia Meloni che incassa un successo di plastica evidenza e storica portata. Ma una volta esaurite le constatazioni di rito, è d’obbligo venire al dunque circa una situazione che offre parecchie ragioni di ansiosa riflessione. A cominciare dalle due storiche questioni che l’esito del voto non solo non ha sciolto ma ha per molti versi acutizzato e che, per dirla in termini canonici, vanno sotto il nome di questione meridionale e questione settentrionale.
Circa la prima appare evidente che, al di là della nobilitante retorica sfoggiata da un Conte in premiata versione Masaniello, la seduzione esercitata dai pentastellati sull’ex Regno delle Due Sicilie ha un nome. E questo nome è reddito di cittadinanza. Più che di voto parlerei dunque di plebiscitario ex voto per grazia ricevuta da parte dei percettori. E per grazia attesa o pretesa da parte degli aspiranti percettori. Il punto è che, sulla base comunque corposa del suo 15%, Conte apertamente rivendica il ruolo di terzo polo progressista. Se le parole hanno ancora un senso e le culture politiche non sono ridotte a sciacquatura di bocca, a quale titolo un raffinato campione di italico trasformismo può riciclarsi in leader dei ‘veri progressisti’ e una platea di attese sostanzialmente clientelari e assistenziali può riciclarsi in punto d’appoggio di una prospettiva progressista? E’ il classico enigma avvolto in un mistero. Come sempre, peraltro, nelle fasi di acuta sofferenza economico sociale, il ritardo complessivo del Sud si approfondisce e l’Italia che l’alba del giorno dopo illumina è una cartina geopolitica problematicamente spaccata. Ecco perché il futuro, inevitabile confronto fra Meloni e Conte circa la revisione del reddito di cittadinanza è destinato ad andare molto oltre se stesso per trasferirsi sul più generale terreno delle impegnative scelte di valore e delle rispettive idee di Paese da costruire o ricostruire.
Quel che la vicenda elettorale ha indirettamente messo a nudo è infatti l’esistenza, nel corpo vivo della comunità nazionale, di una crescente sacca di ‘cittadinanza passiva’. Parliamo di uomini, di donne, di giovani che pur essendo in condizione di lavorare non cercano più un lavoro e chiedono aiuto di Stato. Oppure di cittadini che per stanchezza, sfiducia, rancore anti sistemico rinunciano al diritto di voto, chiamandosi di fatto fuori dalla vicenda civile del proprio Paese e del proprio tempo. Se, come occorre credere, il processo degenerativo è in parte recuperabile, il recupero non potrà eludere l’impegno a un’intelligente revisione delle recenti politiche assistenzialistiche. Politiche di cui la leader di Fratelli d’Italia pare avere correttamente colto il più insidioso messaggio implicito: lo Stato che dice a milioni di cittadini ‘tu non mi servi, il paese e il mercato del lavoro non hanno bisogno di te, stai a casa e io ti pagherò perché tu ci resti’. Il futuro dirà se alla corretta diagnosi Giorgia Meloni sarà in grado di far seguire adeguata terapia. Impresa da far tremare i polsi. Se son rose...
Ma spine e incognite non mancano neppure in quel profondo Nord che fino all’altro ieri trovava nella roccaforte leghista la sua storica interprete e il suo consolidato paradigma identitario. Qui il prezzo pagato per l’inadeguatezza via, via più evidente di Matteo Salvini s’è manifestato nella prevista emorragia di consensi che solo un drastico ricambio di classi dirigenti appare in grado di tamponare. E che il tracollo manifesto possa facilitare e accelerare la rinascita è, a quanto pare, opinione diffusa fra i ranghi del Carroccio, dove corre voce che parecchi stiano festeggiando piuttosto che piangendo. Ciò non toglie che i voti migrati dalla Lega a Fratelli d’Italia contengano parecchi punti interrogativi riguardo all’effettiva compatibilità fra culture politiche oggettivamente distanti. La Lega ha espresso fin dalle origini un laburismo nordico a sfondo indipendentista e favorevole a quel modello di Stato minimo e leggero che lascia massimo spazio di manovra all’iniziativa privata. Anche Meloni va in effetti ripetendo con evidente convinzione che il lavoro non lo crea lo Stato ma l’impresa: musica per le orecchie di un tessuto produttivo medio piccolo per varie ragioni stremato e inadeguatamente sostenuto. Ma non è un mistero che contemporaneamente punta a restituire all’iniziativa istituzionale e pubblica -vedi vicenda Alitalia- un più incisivo ruolo strategico in una fase d’innegabile fragilità del nostro modello capitalistico. Gran parte dell’appeal esercitato sugli elettori da questa minuta donna d’acciaio, sopravvissuta a un assedio diffamatorio che avrebbe stroncato un bisonte, sta per l’appunto nella centralità attribuita alla patriottica difesa dell’interesse nazionale, tipica anche se non esclusiva faccenda di stato. Parlare di interesse nazionale in questi tempi grami suona ovviamente rassicurante ma nel concreto delle sue declinazioni è una delle pratiche politiche in assoluto più difficili e scivolose: esigerà nei rapporti interni non meno che internazionali un sapiente quanto impervio mix di audacia e prudenza. E’ infatti uno di quei terreni in cui un gol in men che non si dica ti si converte in autogol.
La risposta del sistema al ciclone Meloni è ancora tutta da scrivere. A cominciare dalla qualità della dialettica parlamentare cui assisteremo. Un governo a dominante conservatrice, pur mediata dalla sempre verde autorevolezza del Cavaliere, esige per ovvia necessità dialettica un’opposizione progressista. Ma la vera domanda riguarda per l’appunto loro: chi sono e dove sono in questo momento i progressisti in grado di opporre allo schieramento di governo un modello alternativo degno di questo nome, cioè una ricetta di sviluppo in grado di disincagliarci dalla morta gora della
deindustrializzazione? Allo stato attuale, non l’ex terzo polo Calenda-Renzi che frettolosamente confezionato e incappato in imbarazzanti incidenti di percorso, ha bruciato assai interessanti premesse e s’è arenato in deludente esito. Certo, a rigor di logica il naturale azionista di maggioranza del cartello progressista sarebbe il Pd. Ma un altro Pd. Non quello di Letta che pur lasciata da anni Parigi, è restato un astratto intellettuale della ‘rive gauche’ che guarda da Marte ai problemi drammaticamente concreti degli italiani. Senza riuscire a coglierne ordini di grandezza e conseguenti priorità di diritti economici e sociali prima che civili. E così eccolo assurdamente rispondere alla sconfitta agitando inesistenti rischi di riduzione del diritto all’aborto. Complimenti: mossa psicologicamente appropriata in un Paese che sta morendo di denatalità. Se poi crede che la missione di ‘fermare le destre’ ricevuta per investitura divina consista nell’incitare gli studentelli di qualche liceo dei quartieri alti alla mobilitazione antifascista, proprio non ha capito niente. Il che, per l’appunto, succede se guardi l’Italia da Marte. Provvisoria conclusione: fascisti in giro non se ne vedono. Marziani invece ne circolano parecchi.
vittorianozanolli.it
commenti
Giuseppe Zagheni
2 ottobre 2022 08:19
Le sue belle analisi sul voto non ci spiegano come mai il paese è ridotto in questo stato pietoso a detta di molti, anche se ci si dimentica che siamo sempre tra i primi paese industrializzati al mondo.Mi pare che le sue tesi riportino più o meno il pensiero confindustriale ,chiedere sovvenzioni al governo gratis et amore dei in cambio di una parvenza di posti di lavoro che durano il tempo che trovano.Se ci fosse lavoro vero pagato il giusto non ci sarebbero giovani che aspettano la manna dal cielo. La politica si prenda la sua responsabilità ma anche gli imprenditori si prendano la propria ,troppo comodo criticare il RdC e poi si chiede la stessa cosa per le imprese. Un po' di buona volontà da tutte le parti e se ne può uscire bene. In quanto alla Meloni vince perché dall'altra parte c'è inconsistenza,a parte I 5S che hanno dimostrato carattere . Se guardiamo ai voti si vede che c'è una distribuzione all'interno della dx, i voti sono sono sempre quelli, il problema sarà quando aumenteranno...
Ada Ferrari
8 ottobre 2022 09:18
Mi onoro di non stare né sul libro-paga di Confindustria, né su quello di alcun salotto di rito progressista o populista che sia. Più semplicemente mi guardo intorno e per quel che posso ragiono su quel che vedo. E quel che vedo è una quantità di appelli in cerca di forza lavoro che in ogni settore, dall'agricoltura all'industria al terziario cadono nel vuoto. Il perché lo sappiamo. Quanto al PD la geografia del voto parla chiaro e giro a Lei la domanda: come mai si è trasferito nei quartieri alti e i ceti deboli hanno preso il largo?
Giuseppe Zagheni
9 ottobre 2022 07:55
Può darsi che lei non sia sul libro paga di Confindustria (del resto si sa che al giorno d'oggi non brillano per prodigalità) ma le opinioni che lei esprime sono molto simili a quelle che esprimono i ceti imprenditoriali.Sono che si lamentano di qualunque cosa senza mai creare un sistema ovviasse, alle loro difficoltà ( che sono sempre quelle, eccesso di burocrazia e mancanza di personale qualificato) si sono limitati a seguire l'andazzo (con le dovute eccezioni ovviamente) e tenere i cordonoi della borsa chiusi ,e poi si lamentano che le cose non vanno. Per anni abbiamo subito le politiche di Formigoni ed alleati tese a distruggere il sistema pubblico scolastico, ma anche quello sanitario, e anche quello del piccolo commercio.Ma a voi " moderati" andava bene così. In quanto al PD da presunto erede del PCI si è ritrovato pieno di democristiani come un uovo, e quindi del tutto avulso a qualche cosa sia vagamente di sinistra e c'è ancora gente che crede sia un partito di comunisti . Per concludere : Va bene la critica alla sx ma osannare i " moderati " che non saprei definire se incapaci o complici nello sfacelo.
Ada Ferrari
13 ottobre 2022 08:03
Osannare non è nel mio stile. Se non le riesce evidente il problema non mi riguarda