Guerra e show-business, tra confusione e cambiamento
In genere non scrivo di attualità, mi occupo per mestiere del passato che è possibile giudicare col senno del poi, e trovo veramente pericolosa la spregiudicata immediatezza con cui la società contemporanea giudica quello che accade quotidianamente. Ma qualche giorno fa ho visto delle foto su Instagram di giovanissimi militanti di sinistra, alcuni dei quali conosco di persona, che marciavano per la pace con la bandiera della NATO e il pungo chiuso alzato, e lo spunto è stato irresistibile.
La contraddizione è evidente ed immediata: come si fa ad associare il pungo chiuso, saluto rituale dei geronti del Soviet Supremo alle parate dell’Armata Rossa con la bandiera dell’organizzazione militare che è nata proprio con lo scopo di abbattere l’URSS, e che è il piede armato americano in terra d’Europa?
A chiunque abbia la mia età e oltre, a chiunque abbia vissuto e ricordi i tempi della Guerra Fredda e quando all’inizio degli anni ’80 sfiorammo di nuovo l’olocausto nucleare tra USA e URSS, quello che ho esposto sopra è cristallino come lo era la netta contrapposizione tra i due blocchi, o eri con gli Americani o eri coi Russi. E mai e poi mai la bandiera della NATO avrebbe potuto rappresentare la pace, ma tutt’al più la difesa mano armata di uno stile di vita, quello occidentale democratico e capitalista contro quello orientale, partitocratico e socialista.
Ma per chi ha vent’anni oggi è tutto abissalmente diverso. Se da un lato c’è una oggettiva non conoscenza del passato e della storia recente, dall’altro c’è un interessantissimo nuovo approccio culturale alla politica, legato a nuove ideologie e completamente staccato dalle vecchie.
Il primo dato di fatto oggettivo è che nella storia non scritta dei popoli Che Guevara ha vinto su Bresnev: il pugno chiuso alzato ormai rappresenta quasi universalmente per le nuove generazioni la messa in discussione di ogni statu quo e di ogni prevaricazione e non certo la orgogliosa appartenenza a un sistema partitico e politico egemonizzante ed universale. Il secondo è più insidioso fatto è invece la percezione che si ha della NATO e soprattutto del suo rapporto con l’Europa: la si intende poco come uno strumento di controllo atlantista degli USA sull’Europa e molto di più come una sorta di forza militare europea in difesa della libertà, cosa che essa non è. Ciò che non è cambiato è un certo manicheismo, per il quale Putin è il male assoluto e gli Americani sono difensori della libertà. E purtroppo non è cambiato nemmeno il ruolo di Cenerentola politica dell’Europa tra i due blocchi, ma con una differenza centrale: oggi l’Europa è praticamente tutta atlantista e filo americana.
Dall’inizio di questa terribile assurda vicenda continuo a pensare che avremmo dovuto in questi trent’anni costruire una Europa forte politicamente e geograficamente, con la Russia parte integrante e con una forza militare europea potente e strutturata, e oggi saremmo forti certamente quanto la Cina e forse anche quanto gli USA. Fare insomma con la Russia quello che si è fatto con la Germania dell’Est e con tutti i paesi del blocco sovietico occidentale: Polonia, Repubbliche Baltiche, Cecoslovacchia, Romania, Ungheria etc…
E se c’è un posticino nella storia d’Europa per Berlusconi, quel posto sono gli accordi di Pratica di Mare del 2007, quando quel progetto di inclusione della Russia sembrava pronto a realizzarsi e perfino con la stupefacente benedizione degli Americani. Oggi forse avremmo un Russia democratica e occidentale, e un’Europa con un arsenale nucleare da far tremare i polsi a chiunque ma con il valore aggiunto di essere gestito da una potenza iper democratica ed eterogenea.
Ma nulla di tutto questo è accaduto: oggi abbiamo una Russia isolata e oggettivamente fuori dalla storia, destinata a scomparire perché gli Americani hanno probabilmente deciso che vogliono un solo nemico e che sarà al Cina e che la Russia non deve stare sullo scacchiere. E Putin ha forse giocato l’ultima carta, quella del disastro collettivo. Gli inglesi per parte loro continuano a stare astutamente nei tre cerchi concentrici che gli aveva lasciato in eredità Churchill: un cerchio in America, uno in Europa e in mezzo la Gran Bretagna, e oggi più che mai la Brexit appare una scelta strategica tutt’altro che da sottovalutare nel loro caso, grazie alle quale si sono ricollocati a fianco degli USA e fuori della UE prima che questo divenisse de facto l’atto di sottomissione edulcorata ma inevitabile che rischia l’Europa di oggi. Europa che, per parte sua, pare non avere ormai alternative ad essere la “favorita dell’harem” degli americani: meglio essere il giardino coccolato del mondo che entrare nello scontro tra i titani. E anche io, che l’America la conosco bene, se devo scegliere tra i russi i cinesi e gli americani, scelgo ancora gli americani. E di fatto, la mentalità americana ci ha ormai pervasi senza possibilità di remissione: ne è una prova evidente quel moralismo un po' calvinista che ha ormai attecchito nella nostra opinione pubblica al pari del fare debito per fare consumo, quel “politcally correct” portato all’estremo che di italiano non ha praticamente nulla ma che ormai è uno schema fisso non solo dei media e della politica ma perfino della burocrazia e del mondo dei consumi.
L’America si avvia, con la molto probabile uscita di scena di Putin, a trasformarsi de facto da repubblica ad impero, esattamente come accadde a Roma 2000 anni fa. Quella che Robert Kagan chiamava con lungimiranza eccezionale in un suo saggio degli anni ’90 l’iperpotenza americana e l’imperialismo presidenziale sono a un passo dal realizzarsi, e non certo per la guerra in Ucraina, ma perché il mondo digitale e dei consumi globali è americano, e ne siamo ormai totalmente e incontrovertibilmente dipendenti. La guerra ucraina è l’atto truce ma consacrativo di questo processo. E non è la prima volta che accade.
“La guerra è spettacolo”, come dice Robert De Niro in Wag the Dog, un visionario film degli anni ’90 in cui uno scandalo sessuale del Presidente USA viene coperto da un produttore di Hollywood e da un esperto di comunicazione che si inventano di sana pianta una guerra con l’Albania girata in uno studio cinematografico e la trasformano in un arma di distrazione di massa. Cosa molto discutibile ma estremamente americana… Chi ha più di 40 anni si ricorda certamente lo “sbarco di Grenada”: il 25 ottobre del 1983 gli americani invadono la piccola isola di Grenada e in 48 ore la riconquistano alla libertà facendo cadere una sottospecie improvvisata di giunta militare comunista fatta di quattro gatti spelacchiati, fanno un centinaio di morti quasi tutti soldati cubani e grenadini, ma ottengono un effetto mediatico mondiale clamoroso. Clint Eastwood ci girò uno die suoi film più mitici, Gunny, e la leggenda fu compiuta. Soprattutto fu raggiunto un altro obiettivo, quello vero: nessuno quasi si accorse, né si ricorda, dei 241 militari americani sterminati 48 ore prima di Grenada da un kamikaze musulmano a Beirut in piena guerra del Libano, un fatto che avrebbe indignato l’opinione pubblica americana e forse costretto gli USA a lasciare il Libano: invadono Grenada, è tutta l’attenzione va altrove, con tanto di parate bandiere stelle strisce ed eroi decorati.
Ogni giorno assistiamo all’enorme produzione di fake news sulla guerra in corso, con dibattiti infinti tra gli esperti, foto smascherate e liti tra i giornali sulla veridicità di quanto pubblicano. Non è poi cambiato molto, anche nell’empatia che questi eventi bellici scatenano nella nostra società, e rimane l’impressione che ci sia molto di più dietro a ogni guerra contemporanea che davanti. Di certo rimangono solo i poveri morti e gli sfollati, che quasi sempre come in ogni guerra, sono quelli che non c’entrano niente.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
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