House of Gucci: dalla fine del cinema al trionfo della "bigness" commerciale
Qualche sera fa Sebastiano, il figlio di Philippe Daverio, mi ha girato un frammento strepitoso ( https://youtu.be/FrTL8zKeD4o ) di un dialogo tra il padre e l’architetto Vittorio Gregotti, dove si descrive come solo il Daverio sapeva fare la parabola del “trash” che inizia con l’America di Reagan e arriva alla “bigness” (la mania delle dimensioni) delle nuove architetture mondiali. Gregotti spiega che in architettura il trash ha portato alla “bigness”, e cioè alla capacità di intendere come buono solo quello che è enorme, altissimo, gigantesco, strano e diverso da tutto il resto: la gara mondiale degli ultimi anni al grattacielo più alto o più strano è la prova evidente di quanto detto. E chiosa il Gregotti che buonsenso e normalità sono le due vere utopie del contemporaneo. Oggi la mania della “bigness quantitativa” è irrefrenabile: siamo bombardati senza tregua ogni istante dai numeri e dalle quantità di tutto, dalle notizie alle immagini alle merci, e viviamo in una società bulimica che ingoia senza criterio tutto, purché abbondi.
Ma il nodo vero ce lo spiega il Daverio: cos’è il “trash”? La semplificazione di una complessità fino ai minimi dettagli, poi la trasformazione dei dettagli in parodia, e infine il successo mediatico e commerciale strepitoso della parodia. Perché la semplificazione del messaggio lo rende “epidemico”, e questo è successo in politica, nell’arte, nei libri, nella sanità: tutto si fa comunicazione, apparenza e soprattutto quantità e vendite su grandissima scala. E anche al cinema.
Sono andato a vedere House of Gucci, il film di Ridley Scott dedicato alle vicissitudini di una delle famiglie più ricche e famose del mondo della moda. Ecco, anche House of the Gucci è frutto dell’evoluzione finale di questo percorso del “trash”: lo stesso fenomeno sopradescritto ma stavolta impregnato di lusso e sovrabbondanti raffinatezze (pur sempre molto commerciali), perché la vanità e la voglia di lusso della popolazione media si sono enormemente emancipate.
Prima considerazione: sala da 300 posti, 30 persone. A Natale. Il cinema è finito. E’ finito come luogo di distrazione: vi assicuro che ho vissuto tre ore di angoscia soffocato dalla mia mascherina fp2, senza una pausa, senza poter bere una coca cola, senza risate né commenti del pubblico, con la malcelata impressione di essere in una specie di buio incubatore di particelle di Covid. Terribile, e non per colpa dei cinema di sicuro. Molto meglio aspettare che il film arrivi su Netflix o Amazon Video, pagare anche qualche euro di meno e vederselo a casa sul divano, in sicurezza e mangiando gelati e patatine… e infatti lì ci stanno esattamente portando Netflix e Amazon.
Seconda considerazione: se Ridley Scott, uno dei più grandi registi viventi, arriva a fare un film come questo, forse è proprio finito anche il cinema, e in buona parte per colpa della deriva commerciale che si è ormai impadronita del mondo. Non si riesce, non si può, dire che è un brutto film: ci sono un grande regista, quattro attori premi oscar, atmosfere lussuose, ville e appartamenti splendidi, abiti esclusivi, e un viaggio nel benessere degli anni ’80 perfettamente ricostruito fin nei minimi dettagli. Ma è noiosamente suadente, di quella noia accattivante che è tipica del prodotto commerciale lussuoso ma ormai standardizzato, che attrae e seduce ma esaurisce sé stesso nel momento in cui lo si possiede. Ridley Scott, che con Blade Runner aveva inventato un mondo che non c’era portandoci in un’era immaginifica, finisce per raccontare con maestria non la storia straordinaria della creatività italiana di una famiglia che da artigiana diventa un brand mondiale, ma solo la bieca faida familiare tipica dello stereotipo con cui gli Wasps americani vedono l’Italia, sostenuta minuto per minuto da una accortissima precisione scenica che trasuda la presenza della Gucci Holding in ogni dettaglio: dagli oggetti alle musiche, una specie di messaggio subliminale (e commerciale) continuo che non lascia spazio a niente di imprevisto, perché il mercato non può concepire l’imprevisto.
E’ la sintesi di quello che è diventata la nostra società iperconsumista, dove i nuovi poteri assoluti sono solo quelli commerciali, che sono diventati talmente grandi da condizionare tutto, salvo essere loro stessi prigionieri del dover vendere per esistere: non si può sbalordire, perché non si può rischiare di non vendere. E soprattutto bisogna piacere al maggior numero possibile di individui, se no non si vende abbastanza. Si può solo copiare dalla grandezza del passato, semplificare, imbellettare, globalizzare e guadagnarci sopra. Non c’è niente di sorprendente, solo qualcosa di perfettamente e lussuosamente prevedibile: insomma la dinamica “trash” analizzata dal Daverio ma in versione raffinata e deluxe. E non è assolutamente casuale che Gucci abbia da poco investito nella ristrutturazione dei propri archivi, facendone uno splendido lussuosissimo sacrario della propria storia, ma anche della propria produttività contemporanea…
Gucci è oggi una holding che vale 40 miliardi di dollari, guidata sì da due italiani eccezionali che sono Alessandro Michele e Marco Bizzarri, ma posseduta da soldi arabi e francesi: e siccome comandano i soldi, come in tutti questi enormi stati sovranazionali che sono diventati i grandi gruppi di investimento mondiali, si risponde a rigidissimi schemi omogenei che servono a fare una sola cosa, i soldi appunto. Che oggi si fanno creando delle nuove mentalità o ambizioni a cui si risponde col proprio prodotto. Mai come oggi il denaro è psicologia, influenzabilità…e infatti impazzano gli influencers.
Sembrano veramente passati secoli da quando i grandi capolavori dell’arte e dell’architettura venivano realizzati gettando fortune immense e versando sangue perché non era il denaro il fine, ma il prestigio, la gloria, la storia. Il capolavoro assoluto è sempre stato frutto dello sperpero più scellerato, anche di vite umane, ma non è mai frutto del calcolo mercantile o di bottega.
Il dramma vero della nostra epoca è che non facciamo altro che aggiornare i perfetti prodotti creativi del passato (i quali erano stati invece realizzati pensando alla gloria e dilapidando fortune) preoccupati solo che producano denaro. Un po' come funzionano le app dei cellulari, che per funzionare vanno aggiornate ma sono sempre le stesse.
I Gucci erano un po' degli outsider nel ristretto circolo della moda milanese, e nella Milano dei guru degli anni ’80 erano visti con un certo distacco, come dei fiorentini che avevano fatto fortuna in America e anche come una famiglia molto discussa, o almeno così mi hanno raccontato alcuni milanesi di quel mondo di quegli anni.
Ma oggi Gucci non è più una famiglia, è una delle più perfette macchine da soldi del mondo, e allora le poco edificanti vicende dei Gucci possono condizionare perfino l’onnipotenza di Hollywood, e vengono trasformati nelle uniche icone globali della moda italiana. Il potere del commercio ormai è a un apice inimmaginabile che governa perfino il cinema.
Resta il fatto che la massificazione da sempre si fa strada a scapito della qualità, e la tecnologia a scapito della creatività. Ci tocca sempre di più un mondo molto più comodo e a portata di click, ma molto meno originale, molto meno creativo, molto meno divertente. In una parola, molto meno libero.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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