I concorsi e la scelta della classe dirigente, un tema da rimettere subito al centro
Qualche giorno fa Il Post https://www.ilpost.it/2022/03/30/concorso-scuola-crocette/ pubblicava un interessantissimo articolo sull’ultimo concorso indetto dal Ministero per l’assunzione a tempo indeterminato di oltre 30.000 insegnanti: “in quasi tutte le regioni oltre l’80 per cento dei partecipanti non ha superato la prova scritta. Una quota così alta di bocciati, molti dei quali sono docenti precari con anni di esperienza, ha rinnovato i dubbi sul modello della prova, basata su domande a risposta multipla su un programma assai esteso, in sostanza un test a crocette. Dalla scorsa settimana, dopo i primi risultati, sono iniziate le contestazioni e le proteste di molti docenti contro il test. Le crocette, dicono, non misurano la preparazione di un docente né tanto meno le capacità di insegnare”.
Ora, o l’80% dei docenti e aspiranti tali sono dei somari, oppure in test a crocette o quiz a pallini davvero sono un meccanismo infernale e ormai da eliminare. Chi scrive propende decisamente per la seconda ipotesi, essendone stato vittima ad un concorso pubblico due anni fa: 30 o 40 o 60 minuti per rispondere a razzo con pallini su risposte multiple a decine e decine di domande che nella maggior parte dei casi sono domande di logica o matematica, e che poco o nulla hanno a che vedere con la professionalità acquisita e che si ricerca con il concorso. In realtà quella dei “pallini” è una strage annunciata e anche dettata da esigenze contingenti: la prima ratio è abbattere il più alto numero possibile di candidati, perché non è immaginabile che le commissioni d’esame interroghino per ora migliaia di persone. E così ci si affida sempre più alle onnipotenti e onnipresenti società di consulenza americane che si vantano di essere maestre nella selezione dei candidati più idonei, ma che in realtà a mio avviso hanno solo inventato dei meccanismi di esclusione massiva.
Detto questo, la prima anomalia che dovrebbe farci riflettere è che l’Italia è diventata un gigantesco “concorsificio”: ogni giorno vengono pubblicati i più disparati concorsi, e ogni giorno migliaia di neolaureati e anche di dipendenti di lungo corso vi si gettano rapaci (o disperati) come gabbiani sulle reti di un peschereccio sperando di beccare qualcosa nel mucchio. Vuol dire anzitutto che abbiamo un enorme problema occupazionale, ma anche una enorme insoddisfazione professionale.
In secondo luogo, si presenta un dramma ben più grave: che la modalità di selezione della classe dirigente di un Paese non è più legata alla professionalità ma solo al livello di conoscenze teoriche, o meglio di conoscenza del meccanismo dei quiz fondamentalmente, tanto che ormai è nata una nuova classe sociale, quella dei cosiddetti “concorsisti”, che passano da una selezione all’altra muovendosi abbastanza magistralmente nel sistema cognitivo dei test, che come detto ha ben poco a che fare con il mestiere e la professionalità, e perfino con gli studi universitari se non un po' a quelli legali o matematici.
Il dramma è che in molti casi una risorsa selezionata in base alla conoscenza del quiz e alla professionalità, quando si trova davanti a una concreta emergenza lavorativa non sa come deve agire, perché ha passato più tempo a fare quiz che una professione. Ricordo che all’inizio dell’emergenza vaccinale, dietro a uno dei tantissimi malfunzionamenti dei sistemi informatici, una inchiesta giornalistica scoprì che in uno di quegli enti al concorso per informatici erano passati quasi solo i laureati in legge, e pochissimi informatici. Questo perché ormai la stessa selezione della classe pubblica passa dalla conoscenza molto più del diritto tout-court, anche nelle selezioni d’ambito specifico, che non delle reali professionalità.
Il risultato è che le istituzioni funzionano sempre meno, ma emanano sempre più leggi: chi manca di professionalità specifica ma abbonda di conoscenza legale, davanti a una emergenza produce più facilmente regolamenti che non soluzioni organizzative.
A questo dobbiamo aggiungere che tra lauree triennali, poi specialistiche, dottorati post lauream e master di primo e secondo livello, abbiamo talmente allungato (e reso costosa) la carriera scolastica, che in qualche modo questi titoli di studio vanno resi “rimborsabili”: tradotto, diventano titoli senza i quali non si accede a nessuna selezione, ma finiscono per essere equiparati ad una professionalità che non si possiede.
Ora, se è vero che Re Salomone scriveva che al confronto della sapienza l’oro è come fango e l’argento come polvere, è pur vero che sapere viene da “sapio”, che in latino significa anzitutto “avere sapore” che è ben qualcosa di più che imparare un quiz, e benchè i nostri contadini di una volta dicessero con cognizione di causa che “è meglio sapere che sappare” (zappare ndr), per mettere in tavola da mangiare occorre che la zappa qualcuno la usi, e anche bene.
Al di là delle battute, l’emergenza sui criteri di scelta della nostra classe dirigente è drammaticamente urgente, perché in gioco c’è la capacità del Paese di reagire ai tempi durissimi che come ci ha ricordato raggelante Draghi non mancheranno...
Occorre metterci seriamente la testa, e anche rimetterci un po' la zappa.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)
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