I Visconti: dal nido di vipere al cinema. Storia di una famiglia epica
Non si può parlare degli Sforza senza parlare dei Visconti, e benché un paio di editoriali di poche battute non possano in alcun modo farne un racconto esaustivo, va detto che di queste due famiglie troppo poco davvero è stato scritto (pure se da un gradissimo illuminista come il Giulini e da una gustosa recente trilogia di Carlo Maria Lomartire), anche a causa di quella parsimonia che dei lombardi è al contempo pregio e difetto, e che sempre ci ha evitato ma anche impedito una sana agiografia del nostro passato, soprattutto quando essa era ben motivata come appunto in questo caso: mai la Lombardia vide tanto splendore e fu tanto potente come nei 200 anni di regno di queste due dinastie, una cresciuta e legittimata dall’innesto sull’altra.
E va aggiunto che fino ai Savoia nessuna dinastia italiana fu così vicina a unificare l’Italia o buona parte di essa: all’apice del suo splendore il Ducato di Gian Galeazzo Visconti comprendeva tutta la Lombardia, metà del Veneto, la Liguria con la potentissima Genova, Bologna e buona parte dell’Emilia Romagna, l’Umbria e mezza Toscana; all’altra metà della Toscana, Firenze, stava per dare l’ultimo assalto quando la morte, pare di peste o forse di febbre malarica, o forse addirittura per avvelenamento, lo colse nel 1402 a Melegnano. Il Conte di Virtù (così chiamato perché il Re di Francia lo fece Conte delle terre del Vertus in Champagne) fu il primo Duca di Milano ufficialmente investito dall’Imperatore: grazie alla sua incontenibile ambizione, al suo carattere d’acciaio, al talento militare ed anche alla sua spietatezza divenne Signore di Pavia, Crema, Cremona, Bergamo, Brescia, Como, Lodi, Verona, Vicenza, Belluno, Feltre, Novara, Vercelli, Alba, Asti, Tortona, Alessandria, Valenza, Piacenza, Bobbio, Parma, Reggio Emilia, Bologna, Pontremoli, Pisa, Perugia, Siena, e infine Assisi.
Nei suoi disegni, presa Firenze sarebbe entrato in Roma negoziando col Papato la propria discesa a Napoli verso il Sud, cercando per primo di realizzare il sogno di un Regno d’Italia.
A lui si deve il Duomo di Milano: iniziato con larghissima generosità nel 1386 quale mausoleo della propria stirpe, fu poi sostituito dalla Certosa di Pavia che anch’essa dobbiamo a lui, in seguito ai dissensi con la orgogliosissima Fabbrica del Duomo, che ancora oggi ne è la proprietaria: Gian Galeazzo donò in via esclusiva e per sempre le cave di Candoglia al Duomo, quel marmo rosa tenerissimo, splendido e delicatissimo, che né appannaggio unico al mondo. La statua che raffigura il primo Duca ancora oggi troneggia sulla guglia Carelli, la prima ad essere stata costruita, benché di certo Gian Galeazzo non fosse uno stinco di santo: la sua strabiliante carriera inizia con l’assassinio, mediante un tranello e per prenderne il potere, dello zio Bernabò Visconti. Va detto che una certa vena di sadismo e crudeltà non abbandonò mai la stirpe, oltre ad una marcata dose di follia: i figli di Gian Galeazzo, Giovanni Maria e Filippo Maria, rispettivamente secondo e terzo Duca, brillarono per efferatezza e paranoia, finendo tutti e due piuttosto male e dilapidando l’enorme eredità paterna in 50 anni: pare che Giovanni Maria si dilettasse nell’allenare i cani da caccia a sbranare gli uomini e Filippo Maria nell’avvelenarli (gli uomini, non i cani…). Per La verità se Giovanni Maria fu proprio un pessimo Duca, Filippo Maria pur nei suoi eccessi, riuscì a governare nel complessissimo scacchiere italiano per 30 anni. A proposito: l’usanza di mettere Maria quale secondo nome a tutti i Visconti e poi agli Sforza, divenuta poi molto milanese, viene dalla Madonna del Latte, quella iconologia di Maria che allatta il Bambin Gesù la cui devozione secondo la vulgata guariva dalla sterilità: nel Duomo di Milano il culto dell’effige è ancora vivissimo, e a ben vedere…fu infatti una donna, Bianca Maria figlia di Filippo, a salvare quel che restava del Ducato sposando il grande soldato Francesco Sforza.
Gian Galeazzo fu dunque l’apice del potere dei Visconti, una storia iniziata agli albori del Medioevo quando un leggendario avo uccise il temutissimo e mefitico drago di Crescenzago ricevendo la nomina a Vice- Conte, Visconte appunto: forse da lì potrebbe venire il simbolo della famiglia, quel biscione che ingoia un uomo rosso che è stato poi effige dell’Alfa Romeo e dell’impero berlusconiano, e su cui tanto si è ipotizzato nei secoli. Altro simbolo della famiglia è la Raza, un nido di vipere che prende le sembianze dei raggi del sole, quel Sol Iustitiae che nelle allegorie medievali è simbolo del Cristo, e che spicca proprio in forma di Raza come primo rosone vetrato nell’abside del Duomo.
A fare la fortuna della dinastia furono però due membri del XIII° secolo: Ottone, Arcivescovo e primo Visconti a divenire Signore di Milano nel 1281, non molto amato dal popolo ma di certo uomo politico di grandissime doti, e l’abilissimo e ammirevole Matteo, un vero Primus inter Pares, che dopo lo zio vescovo fu capace di emergere tra le faide aristocratiche e le pulsioni del popolo quale stimatissimo uomo di mediazione. Fu detto Magno dalla sua casata, che da lì in poi crebbe senza sosta in averi e potenza.
Ultimi membri degni di nota sono del secolo appena trascorso: Giuseppe Visconti di Modrone, primo duca di Grazzano, e suo figlio Luchino. Giuseppe dedicò buona parte delle sue energie alla costruzione del finto borgo medievale piacentino che ancora oggi è meta visitatissima di tante gite domenicali, un inganno storico riuscitissimo che confonde i meno acculturati ma che conquista anche gli esperti: Grazzano Visconti appunto...
Luchino è invece nella storia del cinema: massimo regista, coltissimo e raffinatissimo, ci ha regalato capolavori aristocratici come il Gattopardo, Senso e Morte a Venezia, così come fu splendido cantore neorealista del proletariato con Ossessione, Bellissima, Rocco e i suoi Fratelli. Convivevano in lui i riverberi di secoli di aristocrazia, nelle raffinatezze e nelle perversioni, ma anche quel rapporto tutto particolare con operai e contadini che in fondo è anch’esso tutto aristocratico e per nulla borghese. Era fortemente comunista Luchino, ma viveva come un principe rinascimentale: ricordo che il nipote e grande fotografo Giovanni Gastel una volta mi raccontò che davanti a questa sua osservazione di apparente incongruenza, l’illustre zio rispondeva: “comunismo vuol dire che tutti diventano ricchi come me, non che io divento povero come gli altri!”
Sette secoli di sopravvivenza valgon bene una messa, o una iscrizione al PCI, ma questa terra di Lombardia che dei Visconti-Sforza è figlia, dovrebbe ben celebrarne e molto meglio il ricordo, cosa che invece non si fa quasi mai e quasi per nulla. Siamo abituati a vedere in Toscana o in Piemonte o nelle Marche fior di rievocazioni storiche, come se noi qui non ne avessimo di fatti e famiglie e prestigio da rievocare. Che gran peccato…
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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