23 aprile 2021

Il 25 aprile degli archivi: alle origini della Liberazione, attraverso la verità, lo studio e il racconto

Mi perdoneranno i miei conterranei cremaschi, ed anche i miei concittadini cremonesi (dato che, pur cresciuto nel cremasco da cremaschi, ebbi natali alle Ancelle di Cremona un lunedì di maggio del ’78) se farò una disamina tutta milanese della Liberazione, ma la storia di Milano è ormai per me mestiere.

Gli archivi milanesi grondano letteralmente di materiali sui 25 aprile che si sono succeduti negli anni, ma custodiscono anche ciò che accadde molto prima, e che mi interessa di più ora trattare.

Il 7 ottobre del 1918, il primo sindaco socialista di Milano, e nostro conterraneo, il soresinese Emilio Caldara, emana un proclama affisso in tutta la città (senza radio, TV ed internet i manifesti erano il mezzo di comunicazione, come cambiano i tempi…): chiede agli operai di tornare nelle fabbriche, alla calma e al lavoro, si farà lui medesimo interprete delle loro ragioni presso il Governo. Siamo agli albori di quel “biennio rosso” che travolgerà senza scampo le aristocrazie liberali che governano l’Italia dall’unificazione sabauda, e che porterà in un pugno di anni alla dittatura fascista.

Tutti i grandi smottamenti politici italiani hanno sviluppo e conclusione a Roma, ma nascono a Milano: da qui partono sempre gli impulsi. E tutti i leaders di questi cambiamenti sono stati, prima che governanti a Roma, consiglieri comunali a Milano: Craxi, Spadolini, Bossi, Berlusconi… e Benito Mussolini, ovviamente, che lo fu nel 1914 col Partito Socialista, in appoggio a Caldara. Mussolini si dimise quasi subito, anche su invito del Sindaco: troppo estremista e per niente istituzionale, mirava a ben altro. E il 23 marzo del 1919, in piazza San Sepolcro dentro la stanzetta di un “Circolo Industriali”, diede vita con uno sparuto gruppetto di militanti, nella più assoluta e sconcertante ignoranza generale, ai Fasci di Combattimento. In archivio non vi è nessuna traccia di quei fatti: non un manifesto, non una autorizzazione o un diniego, non un verbale di polizia o un intervento in Consiglio Comunale. Niente. Solo Il Corriere della Sera citò l’evento assieme a un furto di saponette, in dieci righe: nemmeno fossimo in un film di Maurizio Nichetti... 

Esattamente tre anni dopo, ventimila virgulti armati in fez e orbace marciavano in Galleria Vittorio Emanuele mentre le faide interne al Partito Socialista impedivano a giganti come Turati Filippetti e Caldara  di rendersi conto di quanto accadeva. L’unica socialista a capirlo fu una straordinaria donna, medico e politica di prim’ordine: Anna Kuliscioff, compagna di Turati, che proprio quel giorno scrisse sul suo diario “a mezzodì comparve il più bel sole di primavera, con la benedizione del Signore. Tutti quei giovani gagliardi belli agili tutti inquadrati militarmente, fanno un effetto magnifico di bellezza e di forza, se non si sapesse a che turpi scopi è rivolta la loro azione. Appena finito il corteo, si scatena un violento acquazzone. E’ un vero esercito, che muove all’assalto molto in alto: non mi meraviglierei che si impossessino tra non molto del potere e creino una repubblica oligarchica con Mussolini Presidente Papa e Re”. Cinque mesi dopo, complice il Prefetto (e quindi il Re) le squadre fasciste assaltano Palazzo Marino, destituiscono il Sindaco Filippetti e Gabriele D’annunzio tiene dal balcone un imprevedibile e magnifico discorso di pacificazione nazionale, che gli costerà la definitiva estromissione dal fascismo e dalla vita pubblica a fino alla morte.

 Il resto è storia fin troppo nota, e ciò che celebriamo il 25 aprile, in un tradizionale clima di divisione nazionale, è in sostanza quanto accaduto tra il 1943 ed il 1945: la Liberazione dal Fascismo.

Nel fascicolo delle celebrazioni del primo ventennale della Liberazione, datato 1965, c’è un ritaglio del numero 80 de “Il Giorno” a firma di Giorgio Bocca, che dice “Sappiamo benissimo di aver sprecato questo ventennale, almeno per quanto riguarda il nostro discorso con i giovani (…) ripetendo stancamente gli stessi discorsi che si potevano fare nel 1948 ma senza i ricordi freschi e le ferite aperte di allora. Giovani ben disposti, troppo ben disposti. Tanto da ascoltare in reverente silenzio l’inossidabile apostolato comunista-operaista contrapposto a quello, non meno indifferente alla storia, del liberal-cattolicesimo (…). Negli archivi degli istituti storici c’è la versione più onesta sulla guerra partigiana. Leggiamola, raccontiamola”. Parole pesanti, nel cui giudizio non intendo assolutamente addentrarmi, ma che testimoniano quanto ancora allora il 25 aprile non avesse pace nemmeno tra i partigiani. Non poteva non colpirmi la citazione degli archivi come fonte di verità studio e racconto. E quel richiamo severo e affettuoso ai giovani, ora come allora, checché se ne dica, sempre “ben disposti. Troppo ben disposti”.

Ciò che mi interessa è capire cosa celebriamo oggi, dopo70 anni. La Liberazione dal Fascismo, o la libertà? Perché se è la prima che celebriamo, allora è utile ricominciare a guardare di più a ciò che accadde molto prima di quel 1945, perché il male cambia forma ma non sostanza, e gli indizi per scovarlo nel suo formarsi sono sempre gli stessi. Studio, verità, racconto.

Se è invece la libertà che celebriamo, allora non possiamo non guardare, anche solo in una sana via precauzionale, a questo anno passato, in cui mai come da allora i nostri diritti sono stati “congelati”, seppur in ragione di una emergenza sanitaria senza precedenti recenti. E non possiamo non pensare a Facebook, Instagram, Twitter e a tutti gli altri strumenti a cui abbiamo affidato la nostra libertà di espressione e pensiero, e che sono, non lo dimentichiamo, aziende private ormai sono divenute opinione pubblica e appartenenza sociale ma con un potere di veto e di giudizio insindacabile, e soprattutto con la proprietà dei server su cui i nostri dati, pensieri, immagini e spostamenti vengono registrati e conservati senza che ne abbiamo il minimo controllo.

Non è mia intenzione demonizzare questi mezzi che sono anche potentissimi strumenti di conoscenza e divulgazione, e che anche io uso continuamente, e nemmeno affrontare ora qui il tema delle libertà sospese e della pandemia mediatica. Ma quelle poche righe sul diario di Anna Kuliscioff, unica ad averle scritte in quei giorni, mi ricordano che la libertà se non muore tra gli applausi muore tra l’indifferenza, magari con un bel sole di primavera. E che conoscere il passato aiuta a capire il presente e anche a prevedere in certa misura il futuro.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

 

 

Francesco Martelli


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti