Il cappotto di Gogol e la progettazione nella pubblica amministrazione
Chiudo oggi con questo editoriale quella che un affilato lettore ha già definito “la trilogia del cappotto”, che ha intersecato la mia complicata ricerca in internet di un cappotto con la storia dell’arte. E come un altro fine lettore già aveva notato, esiste un racconto dedicato proprio a un cappotto che ha segnato la storia della letteratura e che rappresenta un impietoso ritratto della amministrazione pubblica. E’ il racconto di Gogol “Il cappotto”, ambientato dal gigante ucraino della letteratura nella San Pietroburgo zarista di metà ottocento. Akakij Akakievic (e già il nome è tutto un programma) è un funzionario di un indecifrabile Ministero russo con mansioni di copiatore. Trascorre l’intera vita copiando senza tregua come se fosse la sua unica ragione di vita. I suoi giorni trascorrono mediocri e uguali, con colleghi altrettanto noiosi e insignificanti, la maggior parte dei quali passa le giornate aspettando solo l’orario di uscita dall’ufficio, e quindi lo sbeffeggia proprio perché inutilmente stakanovista.
L’arrivo del freddo glaciale russo lo fa accorgere che il suo vecchio cappotto slavato è ormai completamente liso: va allora da un sarto che lo convince a farsene uno nuovo, bellissimo, con tanto di collo di pelliccia e che gli costerà molti digiuni serali. Ma il sacrifico vale il risultato: il capotto nuovo lo trasforma in una sorta di beniamino dell’ufficio, tanto che perfino le più alte sfere della burocrazia (costellate in verità da idioti incapaci e arroganti) si accorgono di lui… “kleider machen leute” scriveva Keller in un altro famoso racconto… gli abiti fanno la persona!
Ma il cappotto, troppo bello, gli viene rubato da dei malviventi, Akakij rimpiomba nell’anonimato e finisce per morire letteralmente di freddo, dopo aver inutilmente chiesto giustizia del furto sia alla polizia che alle alte sfere del Ministero: sarà invero l’indifferenza del potere e della burocrazia a ucciderlo, ben più che il freddo. Tornerà come fantasma a rincorrere tutti i passanti che abbiano un bel cappotto…
Al netto delle considerazioni sul discutibile umorismo russo, il racconto sciorina praticamente tutti i cliché negativi che conosciamo sulla Pubblica Amministrazione e che buon parte del cinema italiano ci ha rifilato per anni: i lazzaroni che aspettano solo di tornare a casa, gli idioti boriosi promossi misteriosamente alle più alte sfere, i pitocchi e grigi omini di apparato che hanno come unica ragione di vita le loro scartoffie e che si vestono male anche perché i loro stipendi sono miserevoli. Ma soprattutto, la mostruosa disumanità della burocrazia, uno schiacciasassi implacabile e imperturbabile che condanna tutti al sopruso e all’anonimato.
Ora, se non si può negare che ogni cliché nasce da una certa dose di realtà e anche da una certa base statistica, e che quindi queste figure nella PA esistono e sono esistite, c’è, ovviamente, anche un’altra Pubblica Amministrazione, fatta di elevatissime professionalità e persone che dimostrano ogni giorno una dedizione al proprio lavoro fuori dal normale e che, soprattutto, fa funzionare lo Stato. Ricordo che Philippe Daverio divenuto Assessore rimase sbigottito da quanto i suoi impiegati lavorassero, contrariamente al cliché del lazzarone, tanto che spesso raccontava di intimargli di andarsene e godersi un po' di più la vita, perché (e aveva perfettamente ragione) amare troppo il proprio lavoro è sbagliato come non amarlo per niente.
Chi scrive ha scelto la PA da ormai più di 10 anni: ci rimango nonostante negli ultimi tempi non siano mancate anche interessanti proposte in altri ambiti, e nonostante soffra terribilmente di una insopprimibile allergia a quasi tutti i riti e i meccanismi della burocrazia, e alla grettezza meccanica della burocrazia che troppo spesso spiana violenta e prevaricatrice ogni tentativo di innovazione e cambiamento.
E non dimentichiamo anche nonostante gli stipendi: benché il posto fisso e il salrio garantito al giorno d’oggi siano decisamente un privilegio, siamo del 30-40% sotto alla media del privato: non fatevi ingannare dai cosiddetti “stipendi d’oro” di qualche idiota sbruffone che raggiunge le alte sfere e finisce sui giornali per i disastri combinati, la media della retribuzione dei dipendenti pubblici è veramente da miseria, specie in città costosissime come Roma o Milano: la retribuzione media di un dipendente con 20 anni di servizio è 1.300 euro mensili, quando a Milano una stanza in condivisione oggi costa 700 euro al mese…
Ma c’è un dato ineluttabile: checché se ne dica, senza Stato non si esiste. Senza Stato tutto smette di funzionare. Ed in fondo questa la prima vera ragione per cui si sceglie e col tempo si rimane nella PA: la coscienza che il proprio lavoro faccia funzionare la collettività, a volte con sforzi sovrumani all’interno per ottenere risultati risibili dall’esterno, e quindi non senza una certa dose di frustrazione. Siamo in un momento storico di grandi difficoltà, con un livello di istruzione elevatissimo ma una richiesta occupazione assolutamente al di sotto delle aspettative. E siamo in un momento storico in cui la PA , dopo anni di blocco, sta assumendo ovunque con concorsi a raffica, e vale dunque la pena di chiedersi se è una scelta da fare non solo per tirare a campare ma anche per dare alla propria vita un senso.
Martedì prossimo sarò relatore ad una giornata di formazione organizzata dalla Direzione Urbanistica del Comune di Milano e rivolta ai “tecnici” della PA: architetti, geometri, ingegneri, a che avrà come spunto la presentazione di un volume su Arrigo Arrighetti, finissimo architetto milanese che fu anche “ingegnere Capo”, all’epoca si chiamava così, del Comune tra gli anni ’50 e ’60. Un personaggio che viene riscoperto dopo decenni, che operò nei contorni grigi della burocrazia spesso disegnando edifici che nemmeno firmò, scuole archivi magazzini…tutti edifici di cui il Comune aveva bisogno rapidamente e in cui egli mise tutta la sua raffinatezza di progettista, piegando cementi armati e vetri ferrati alla sua delicatezza creativa benchè servissero a scopi pratici e pubblici, due caratteristiche che in genere hanno regalato all’Italia i peggiori edifici e le peggiori urbanizzazioni ma in cui invece Arrighetti mise tutto sé stesso, pur sapendo che quasi nessuno lo avrebbe lodato.
Arrighetti è un esempio magistrale di come la dedizione alla PA non impedisca di esprimere se stessi, e che fare cose buone utili e anche belle è sempre possibile, anche nella sfera pubblica. Perché quando una cosa è di tutti, deve anche essere per tutti.
E sarei pronto a scommettere che nell’armadio aveva un bel cappotto…
(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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